C’è una santa spada che difende la Montagna dell’Angelo

by redazione
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Non so come vadano ore le cose, ma a quei tempi l’isola garganica si reggeva sopportando appena, e con rancore non sempre espresso, la presenza della burocrazia fiscale, accoglieva con onori ospitali soltanto il regio pretore e i reali carabinieri (i giovani sottotenenti dell’arma, di solito scapoli, avevano posizione privilegiata e finivano quasi sempre col far parte del parentado) ma per tutto il resto l’isola si faceva legge da sé, Stato nello Stato, anzi dello Stato grande quasi ignorava l’esistenza. Allora il servizio militare, tra esenzioni legittime, simulazioni e gherminelle diverse, poteva essere in gran parte eluso: mancava così il principale motivo di scendere al piano dov’era la ferrovia.

Ogni quindici giorni durante le sessioni giudiziarie soltanto tre o quattro signori lasciavano la regione con finto disappunto (viceversa erano lietissimi del diversivo che per quei bravi padri di famiglia rappresentava una scappatella) e si trasferivano a Lucera, sede riverita della corte d’assise in funzione di cittadini giurati e tornavano con la testa piena di racconti straordinari, efferatissimi delitti e vaste arringhe dei patetici penalisti del Mezzogiorno: gli avvocati penali di grido erano considerati dei semidei, il primo dei semidei era il professor Pessina.

Altro motivo d’evasione lo offriva la fiera di Sansevero per i proprietari di bestiame, quella di Foggia per gli allevatori più grossi e a dire di Benedetto Croce – che ha poderi in Puglia ed è ricco di storia nostra – quest’ultimo era il pretesto annuale per ben altre licenze facili a supporsi che talvolta avevano conseguenze alquanto penose e non poco imbarazzanti.

Chi poteva mandava i figli agli studi, al lucerino collegio che poi si intitolò a Ruggero Bonghi , o, più modestamente, al seminario di Manfredonia, a quello di Molfetta, : la vocazione, se c’era, sarebbe saltata fuori per via. Così cominciò la fuga dell’élite perché molti, moltissimi, dagli studi non tornarono più nella casa nativa; poi sopravvenne la grande emorragia del sangue garganico, l’emigrazione popolare transoceanica, e da allora gli americani entrarono definitivamente nel discorso.

Ricordanza aurata

Ma l’emigrazione è una pagina troppo contemporanea, di tempi in cui l’incantesimo era ormai rotto.

Noi vorremmo parlare soltanto di quelli che appartengono, più che alla memoria, a una specie di ricordanza aurata, vaga e magica, in cui tutto si spiana e si addolcisce: altrimenti non ci soccorrerebbe neanche la vena del rimpianto, questa ineffabile consolazione.

Se diciamo che il Gargano era un’isola felice sarà facile capire perché. Nella parte del pormontorio che avrebbe dovuto formare il cordone ombelicale congiunto al resto della Capitanata si apriva invece il maggior distacco, il vallo profondo, la frattura attraverso la quale la vita fluiva molto più stentatamente che dal mare. Era quella la gola dell’Ingarano, salendo da Apricena verso Sannicandro, lo scoscedimento dell’altopiano dove basta raccogliere un sasso siliceo e spaccarlo per trovarvi la conchiglia fossile dell’abete Zanella, testimonianza certa dell’epoca in cui anche lì ribollivano le acque dell’immenso seno veneto.

Venne una volta il fiorentino Rellini, cercatore accanito dell’uomo delle caverne, e scavando presso Calinella a pochi chilometri dalle rupe di Peschici disseppellì un teschio che valse a mandarlo in delirio: aveva scoperto che il Gargano era uno dei luoghi del mondo in cui l’esistenza umana si era annunziata con le sue prime apparizioni: egli mi mostrava quel teschio enorme, cavallino, stringendolo tra le mani tremanti per l’emozione, quasi si aspettava che io lo venerassi come un caro antenato. Era forse il vero antenato isolano, del tempo in cui il Gargano si bagnava da tutte le parti, o forse dico una bestialità geologica, forse l’Isola era già saldata, ma solo fa pochi millenni, un’inezia alla terraferma. Comunque è provato che abbiamo ascendenti lontani: al nostro confronto gli alberi genealogici che risalgono alle Crociate sono da irridere, fanno pena. Quel teschio sarebbe da mettere nello stemma regionale come supremo vanto patrizio se il posto non lo avesse preso legittimamente il nostro bel San Michele dalla spada minacciante.  C’è una santa spada che difende la montagna dell’Angelo, e Dio sa quanto essa ne abbia bisogno dal tempo in cui, ahimè, non è più un’isola né di nome né di fatto.

Puglia, Orizzonti Salentini Editrice, n. 2, Roma, 1949

Francesco Maratea

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