Il collega Dante Alighieri e quella intervista insuperabile della Comedìa

by Enrico Ciccarelli

Leggo i giornali con una certa continuità da circa cinquant’anni, e da più di quaranta pratico con regolarità questa professione (con quali esiti e a quale livello qualitativo non saprei dire). Molte firme hanno fatto in tempo ad affascinarmi: quelle che ho potuto a vedere all’opera nel loro fulgore, da Indro Montanelli a Gianni Brera, da Oriana Fallaci a Camilla Cederna, da Natalia Aspesi a Paolo Mieli; e quelle che ho ritrovato sui libri, da Luigi Barzini a Dino Buzzati, da Richard Kapuscinsky a John Reed e George Orwell.

Ma se dovessi indicare il giornalista che per me rappresenta un ideale punto di riferimento, un modello insuperabile, un precedente esemplare, farei un altro nome, quello del collega Dante Alighieri, specialmente nel reportage che è il suo capolavoro, che l’umanità conosce come la Commedia. Conosco l’obiezione che sorgerà spontanea in molti lettori: non è giornalista l’inviato nel mondo dell’immaginazione, essendo la nostra professione, con tutta la letterarietà del caso, dannata al culto di ciò che davvero è accaduto, e non di quello che abbiamo pensato o avremmo voluto che accadesse.

A me sinceramente pare che questa distinzione sia frutto della sicumera “di chi crede che la realtà sia quella che si vede”, per dirla con Montale, di quanti hanno le idee chiare su cosa sia la verità, ed io non sono fra questi. Penso che Erodoto di Turi sia giornalista eccelso sia quando narra delle guerre persiane sia quando racconta la favola dell’anello di Gige; e lo stesso valga per le cronache dettate da Marco Polo a Rustichello da Pisa nel Milione, dove le meraviglie del Cipangu e della corte di Kubilai sono anche il sogno che divelle i muri dell’angusta cella divisa dai due. Ma mettiamo fra parentesi questa disputa, troppo vasta e profonda per gli spazi di facebook. Limitiamoci a dire che il collega Alighieri, per quanto sia immaginaria la materia del suo racconto, la sottopone a un trattamento di assoluto rigore, al punto che a volte è costretto a qualche elucubrazione concettosa per spiegare apparenti antinomie (avete presente tutta quella pippa per cui le anime sanno qualcosa ma non tutto del presente e del futuro?) e ricorre persino ad esimenti e captatio benevolentiae (“qui le parole non bastano”, “caro lettore, ciò che ho visto è impossibile a descriversi” ecc.). Cose forse non vere, ma sicuramente non arbitrarie, come si conviene ad un monumento dello spirito medioevale.

Il Canto V della prima cantica è quello che più mi convince a prendere a modello il collega. Non solo per la prima parte, con la sua articolata descrizione dell’operato del giudice infernale Minosse, ma anche e soprattutto per la seconda, con la visita al girone dei lussuriosi (“i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento”) e la più bella intervista che sia mai stata scritta, quella a Francesca da Rimini. Prima di entrare nel vivo dell’incontro è bene ripensare al contesto: i lussuriosi, in base al contrappasso dantesco, sono trascinati dalla “bufera infernal che mai non resta” proprio come furono trascinati in vita dal fuoco della passione. E siccome l’universo letterario dello stilnovista Dante Alighieri è incentrato sull’amor cortese, sulle passioni del ciclo bretone e del mondo classico, i personaggi che vengono mostrati a Dante sono quelli del suo immaginario: Elena e Paride, Lancillotto e Ginevra, Tristano e Isotta, con Didone e Semiramide per sovrammercato.

In termini moderni, è come se Virgilio accompagnasse un giovane cronista ad un Hollywood party e gli segnasse a dito Brad e Angelina, Charlitze Theron e Jonny Depp, Tom Cruise e Jennifer Aniston; insomma l’intero Olimpo dei divi. Cosa farebbe un giornalista qualsiasi, un mediocre scribacchino come ce ne sono tanti in giro? Direbbe “Brad Pitt al cinema sembra meno alto” o “Catherine Zeta-Jones ha davvero uno splendido sorriso” e “l’anello al dito di Viktoria Beckham deve valere una fortuna”. Quelli un po’ meno sprovveduti arriverebbero ad apprezzare l’algida eleganza di Meryl Streep o Robert De Niro che sorseggia meditabondo il suo whisky; e cosa ti combina, invece, il nostro formidabile Alighieri? Chiede a Virgilio, che gli ha nominato più di mille spirti, di parlare con “quei duo, che insieme vanno, e paiono sì al vento esser leggieri”, dove il verso allude non tanto ad una levità, quanto piuttosto ad una fragilità. Da grande giornalista, Alighieri non guarda al proscenio, alla luce dei riflettori, a quanto è ostentato e celebre; si occupa della penombra, del non detto, dell’ignoto. Chi saranno mai, queste due anime fragili, così singolari nella loro unione e nel loro travaglio? Si sa come prosegue: Francesca spiega chi è, evoca in modo triplice l’amore. Liberato dagli endecasillabi, il suo racconto è scabro ed essenziale: sono nata a Rimini; costui si innamorò di me, della bellezza che mi fu strappata in modo brutale; io non potetti non rispondere al suo amore, e a causa di questo amore un parente ci uccise (“Caina attende chi a vita ci spense”, dove Caina è il luogo del Cocito dove sono puniti i violenti contro i familiari). Il valore giornalistico del collega è confermato intanto dalla prima cosa che fa, una volta che Francesca ha parlato: pensa. Nel mondo garrulo delle interviste televisive, dei microfoni spianati e della totale inconsistenza delle domande e delle risposte, la cosa ha un che di eretico, mi rendo conto; ma in realtà è proprio così che si dovrebbe fare: pensare, e provare a riempire, pensando, quel vuoto che le parole non possono colmare.

Ma la laurea in giornalismo Alighieri se la merita con la seconda domanda. Vedete, non c’è bisogno di essere particolarmente vocati allo splatter per capire che qualunque mediocre pennivendolo mio pari chiederebbe a Francesca: “Siete stati uccisi? E come? Sei stata sgozzata o trafitta al petto? E tuo marito vi ha sorpresi mentre facevate l’amore? Ed eravate nudi? E c’era molto sangue?” E via così pruriginando, nel truculento repertorio della Cogne School. Quale giornalista, quale giornale, rinuncerebbe ad effettacci così redditizi per far innalzare tiratura e vendite? Ma Alighieri è diverso; sa che in ogni intervista ci vuole rispetto per l’interlocutore, che è lui a fissare i punti cardine, le coordinate, le parole chiave del suo dire. Di cosa ha parlato soprattutto, di cosa ha parlato davvero Francesca da Rimini? Di amore, per ben tre volte. Dunque la domanda sia “A che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?” Come vi siete innamorati? Che cosa ha vinto le vostre resistenze? Come è nato un affetto così tenace da sopravvivere fin nell’abisso della tenebra? Domanda dolorosa, come rimarca la stessa Francesca; ma che non è destinata ad infliggere un’inutile e capricciosa sofferenza: è un dolore della compassione, del sentire insieme per insieme comprendere. Ed ecco questo racconto sublime di un amore che nasce fra due che leggono di un altro amore, in un insuperato gioco di specchi fra quanto è nei libri e quanto sulla nuda terra. Ed è lì che Alighieri fa quello che ogni bravo giornalista fa, in barba ai cliché del cinismo e dell’indifferenza: si commuove, si contamina, partecipa. Perché Francesca somiglia ad una certa Beatrice, e Paolo piange, perché non v’ha maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria, e Lancillotto e Ginevra li ha amati anche lui, e sulla loro storia ha fantasticato non si sa quante volte… E così, finito il lavoro, conclusa l’intervista, mandato il pezzo in tipografia, il collega Alighieri, sommo fra i giornalisti, può finalmente venir meno, sopraffatto da quell’esperienza celestiale e terribile che è farsi attraversare dal mondo.

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