Il terzo Natale

by Raffaella Passiatore

All’imbrunire tornava a casa il figlio del falegname.

Era stato con gli altri bambini a giocare nei campi.

Era stato un pomeriggio di caccia fortunato; avevano catturato ben tre lucertole quel giorno.

Gli avevano tagliato la coda per il piacere di vederla agitarsi da sola, pur recisa per sempre dal corpo.

Lo facevano con una pietra appuntita, bisognava assestare un colpo forte e deciso, con slancio. Prima bisognava immobilizzare il corpo della lucertola, piazzando l’estremità di un rametto poco sotto la testa, dove lateralmente si allungavano le prime due zampette.

Immobilizzare il corpo era decisamente più difficile che recidere la coda. Bisognava calibrare bene la forza, per non impalare l’animale ma solo bloccarlo al suolo. Era cosa di precisione; poco più su gli avrebbero schiacciato la testa; troppo gracile, troppo fragile. Poco più sotto, invece, la lucertola si sarebbe liberata; la bestia, scattando come una molla da un lato all’altro, si sarebbe curvata tanto da accavallare il muso alla coda e, sempre, dopo uno di quegli spasmi, sarebbe riuscita a sottrarsi alla pressione del ramo. Come facesse non si capiva.

Quando si menava il colpo sulla coda non si provava assolutamente niente. Invece, tenendo il ramo premuto in quel preciso punto poco sotto la testa, s’avvertiva una sensazione di molle e gommoso, ed il desiderio indicibile di premere. Un desiderio che i bambini sapevano essere perverso, sadico, e pertanto affascinante.

Affascinante era sentirlo quel desiderio quanto imparare a controllarlo.

Il taglio della coda era semplice, bastava lo slancio, il resto lo faceva il canto tagliente della pietra.

Che strane creature erano quelle lucertole! Non mostravano alcun segno di dolore. Appena la coda era recisa ed il ramo si sollevava dal loro corpo, sgambettavano via rapidissime ricamando filigrane nella terra secca.

Ma la coda rimaneva lì, a far guizzi e capriole come un pesce impazzito senz’acqua. Sembrava ebbra di felicità, non di dolore! Non aveva più occhi, né bocca, né stomaco, né cuore, né polmoni eppure, o proprio per quello, era lì a far balletto della sua libertà.

Il figlio del falegname pensava spesso che gli sarebbe piaciuto essere una coda di lucertola, così per andarsene in giro senza un corpo a far capriole per il mondo.

Arrampicandosi sul tronco secco dell’ulivo, per staccare il ramo, si era graffiato. Una macchia scura, ancora umida di sangue, gli copriva un ginocchio. Eppure saltellava il figlio del falegname, veloce sulla strada in salita. Saltellava e pensava all’indomani.

Domani sarebbe stato un gran giorno; il suo terzo compleanno!

Da domani la sua vita sarebbe cambiata.

L’indomani sua madre l’avrebbe sfregato per bene nella tinozza per il bucato, l’avrebbe unto poi con olio profumato, gli avrebbe pettinato ed inanellato per l’ultima volta i capelli. Gli avrebbe infine fatto indossare la tonaca di lino bianco.

Il giorno prima l’aveva sbirciata dalla porta socchiusa; intrecciava con dita abilissime una ghirlanda di foglie d’ulivo e fiori. Quella corona, domani, sarebbe stata posata sul suo capo.

Il figlio del falegname spinse la porta di legno ed entrò.

Sua madre lo baciò come non aveva mai fatto e suo padre, il vecchio Joseph il falegname, gli regalò un pesce intagliato nel legno. Era un pesce bellissimo, stava in una mano, era di legno d’ulivo. Da un nodo del legno suo padre il falegname aveva ricavato un occhio del pesce.

Da un lato è sveglio e mi guarda -Pensò il figlio del falegname-  dall’altro dorme, oppure è morto.

Era già da molto calato il sole, il figlio del falegname mangiò la minestra di ceci ed una focaccina, poi si accoccolò sotto il pagliericcio, soffiò sulla candela e si addormentò pensando al suo terzo compleanno.

Il primo mattino accese di sole la candela spenta.

Il figlio del falegname aprì gli occhi.

Seduto accanto a lui stava il Rabbino.

La sua barba irraggiava da fiamma, più sottile del fuoco, più bianca della luce, ed il figlio del falegname, istintivamente, allungò una mano per toccarla. La luce si lasciò scorrere tra le dita, quasi impalpabile.

«Sei pronto?» Gli chiese il Rabbino. Il figlio del falegname fece un cenno del capo e socchiuse gli occhi accecati dal bianco.

Chalaqah -Pensò il bambino.

 חלאקה -Pensò il Rabbino.

«Seguimi! » Disse il Rabbino ed uscì. Il bambino si alzò.

Riversa sulla panca, come latte rovesciato, la tunica di lino bianco.

Accanto la corona; sette fili di palma intrecciati e chiusi da un abbraccio di foglie di quercia. E sulla fasciola s’incastonavano smeraldi di frutti immaturi d’ulivo, falde sottili d’argento cangiante le sue foglie, di rubini e topazi l’iride delle infiorescenze, montate nei loro calici dalla maestria di un orafo sapiente.

Il bambino s’infilò svelto la tunica e la corona sul capo, e che cingesse la fronte!

Corse fuori.

Non vi trovò il Rabbino ad aspettarlo, ma una folla di gente stranissima. Gente di tutte le età, uomini e donne, vestiti di fogge straniere che parlavano dialetti sconosciuti. La folla rumorosa gesticolava impaziente.

Finalmente si accorsero di lui e gli si fecero incontro con esclamazioni di gioia.

Egli si sentì salire al cielo.

Fu sollevato di peso, spinto da mani che lo sostenevano ed al contempo lo spingevano in alto, sempre più su, lontano dalla terra.

Lo portarono in festa per le strade del paese. Le donne intonavano canti e gli uomini agitavano ramoscelli d’ulivo mentre, al suo passaggio, i vecchi seduti davanti alle porte delle case gridavano: «Shalom, Shalom, figlio del falegname, tu che stai per nascere!»

I bambini seguivano a distanza, saltellando sulle ginocchia ossute che mettevano in mostra alzandosi le tuniche. Si mischiarono poi al corteo, vi sparirono all’interno come gocce di pioggia nella terra arsa, senza lasciare traccia.

E altre donne arrivarono, queste più giovani, vi si aggiunsero, squarciarono il corpo di folla in due, nel mezzo; come due arti spalancati e Lui nel centro.

Le sentì gridare e contrappuntare i canti, così: «Shalom, Shalom a te che stai per

nascere!»

Il corteo giunse al tempio. Davanti alla porta stava il Rabbino.

Il figlio del falegname scese sulla terra, posò i piedi scalzi sulla pietra ancora fredda della notte.

La folla si divise tra uomini e donne all’interno della sinagoga.

Lui fu l’ultimo ad entrare, seguendo i passi lenti del Rabbino.

L’ombra lo avvolse. Cercò disperatamente il volto di suo padre o il velo ricamato, quello delle ricorrenze, di sua madre. Ma gli occhi non trovarono né l’uno né l’altro.

Seguiva i passi lenti della luce davanti a sé ed in quel momento si sentì solo, ed ebbe paura. Allora si ricordò di sua madre, e sentì la sua voce che gli diceva che sempre si è soli, quando si nasce e quando si muore e non bisogna aver paura perché è normale.

Adesso toccava a lui; stava per nascere.

Il Rabbino si volse e lo guardò negli occhi. Gli si avvicinò dolcemente e gli sollevò dal capo la corona intrecciata. Poi, con altrettanta dolcezza, iniziò a tagliare via i suoi riccioli, lentamente, uno ad uno. Il bambino li sentiva cadere, gli parvero pesanti, erano succubi dell’implacabile forza della terra. Si ricordò di quella falena morta che trovò una volta sul tavolo e che, con l’indice, spinse oltre il canto. La vide implacabilmente cadere al suolo, lei –quasi nuvola- impalpabile come la luce e come la barba del Rabbino, lei che apparteneva al mondo dell’aria, anche lei non poté sottrarsi all’attrazione della terra. La falena morta, come i riccioli recisi, erano diventati pesanti.

Terminato, il Rabbino si fece da parte e gli indicò la pietra.

La superficie della pietra aveva il bruno della pelle del Rabbino, bruciata dal sole e dal tempo.

Era del rosso scuro della terra in cui il bambino giocava; terra mista al sangue di lucertola.

La pietra. Le lettere dell’alfabeto vi erano scolpite, vi affondavano profonde come le rughe sul viso del saggio Rabbino.

Alcune le riconobbe, l’Aleph, la prima lettera, gliel’aveva mostrata una volta suo padre. E poi la lettera Shin, quella di Shaddai, uno dei tanti sinonimi di Dio, quel Dio unico e solo, eppure dal nome sconosciuto. Quella lettera a tre braccia, bellissima, incisa con adorni sulle Mezouzá inchiodate di traverso sulle porte. Quella lettera dell’alfabeto il bambino la conosceva bene.

La pietra gli stava davanti. S’inginocchiò e tese la mano destra.

Con l’indice attraversò quelle strade misteriose scavate nella pietra.

Seguì il percorso dell’Aleph col dito, una strada unta di miele a forma di croce.

Raccolse col dito tutta quella dolcezza e se la portò alle labbra.

Il miele non gli era mai sembrato tanto dolce!

Allora il rabbino parlò: «Che le lettere dell’alfabeto siano per te sempre dolci come il miele, che le parole diventino tuo nutrimento e tua sostanza. Con la conoscenza del Verbo tu nasci adesso, figlio del falegname».

Avido dei labirinti nella pietra, il piccolo dito cercò ancora il miele; linfa dolce, sangue zuccherino di cui erano colme le arterie del Verbo.

Adesso –Pensò- Sto nascendo.

E mentre lo pensava, si accorse che quell’ Aleph andava ingrandendosi, aveva già superato le dimensioni del suo corpo, oppure era il suo dito e lui stesso che andavano rimpicciolendosi?

Una croce leggermente obliqua, le due braccia orizzontali erano due rami secolari d’ulivo che si allungavano ondulati.

Lievitava mostruosamente la pietra fredda, come se nel suo impasto si nascondesse lava bollente, che fermentava e gonfiava e premeva ed espandeva.

Adesso, davanti a sé, stava la lettera Aleph che superava la porta della sinagoga; le tracce dello scalpello erano voragini, la lastra di pietra un muro ciclopico.

La croce continuava a crescere e lui, inginocchiatovi davanti, la guardò sfondare il tetto della sinagoga e raggiungere il sole. 

Il miele colava giù denso, lento, tiepido ma inesorabile, ed ogni goccia era una massa enorme che lo investiva minacciosa; lo invischiava, appesantiva, gravava sui movimenti ed il respiro; l’avrebbe soffocato, l’avrebbe ricoperto ed intrappolato come la resina l’insetto.

Un gorgo la gola piena, riboccava la dolcezza, rigurgitava stucchevole alla nausea.

Non sarebbe perito e marcito il suo corpo, il tempo congelato in un attimo di disperazione.

La natura liquida del tempo e del corpo, il fluire nelle sue arterie umane si sarebbero addensate, per sempre conservati immobili nella resina impietrita.

L’insetto sarebbe diventato fossile, l’uomo un dio; intatto, rinchiuso in un monile d’ambra.

Il figlio del falegname si svegliò urlando. Sua madre accorse e lo prese tra le braccia.

«Anche tre anni fa sei venuto al mondo urlando!»

Il figlio del falegname nascose il volto nel petto morbido di sua madre. Annusò il ricordo del latte, spalancò la bocca ad assaporarne la memoria.

«Andiamo, vestiti, ti aspettano al tempio! Non sei contento? Da oggi imparerai a leggere e a scrivere. Questo è un gran giorno, è il tuo Chalaqah, il tuo terzo compleanno ed ogni compleanno è un Natale, figlio di Joseph il falegname».

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