Io e Charlie. Capitolo III – L’Amore, forse

by Massimo Fragassi

Che l’Amore sia un mistero, seducente e irrisolto, lo appresi di nascosto tra le pagine di un vecchio libro. Allora avevo tredici anni e non capivo perché mia madre lo portasse spesso al cuore,  dopo la lettura, come se a quelle pagine – ingrossate di appunti e di vita – volesse far udire il soffio intermittente del suo battito, ogni volta diverso, ogni volta più intenso. Così, quando un giorno lo lasciò incustodito, sbirciai furtivamente sull’ultima frase che aveva segnato: “Capì che non solo ella gli era vicina, ma che ora non sapeva dove finiva lei e cominciava lui”.

Quel libro, giallo e malconcio, era  il regalo che mio padre le donò il giorno del loro primo incontro e lei, da allora, non smise mai di leggerlo, segnandolo e consumandolo come solo fa la vita quando sfoglia le stagioni.

Che l’amore sia tutto, è tutto ciò che sappiamo dell’amore”, e io penso che la Dickinson in fondo abbia ragione, poiché il mondo ranicchiato in quel mistero si fatica a spiegarlo a parole. I Latini lo avevano capito e per questo inventarono la parola “Amore”, ché certe emozioni, per raccontarle, si fa prima a descriverle per ciò che “non” sono. Cos’è, in fondo, quel sentimento sfuggente e irrazionale che trasforma un battito in pensiero, un istante in una vita? A mors: ciò che non è morte, quel che non ha fine. L’Amore, appunto.

Charlie dice che “tutto si riduce all’ultima persona a cui pensi la notte: è lì che si trova il cuore”. Ha ragione, perché in Amore – quello che ho conosciuto, quello che (a fatica) mi hanno insegnato – “uno” non è mai “ciascuno” e ogni verbo, e ogni azione, è una conquista quotidiana che si coniuga al plurale.

A ben guardare, quel mistero irrisolto e irregolare altro non è, al fine, che una questione geometrica in cui il problema è legare due punti tra loro distanti all’interno di un piano: l’Amore è tutto in quella linea, in cui essenza e differenza si fondono in un palpito. E così, sul quel piano, si districa la vita, in un gioco irrazionale di linee sovrapposte in cui la direzione è il senso di ogni tratto.

La fede, allora, è verticale, l’affetto è circolare, l’odio è obliquo. L’Amore no. L’Amore è un sentimento orizzontale, come i primi piani di Sergio Leone, di quelli che la camera si pianta sullo sguardo e una voce fuori campo sussurra: “amico, serve altro?”, ché spesso ci ostiniamo e non capiamo anche quando  tutto invece è chiaro.

A questo, proprio a questo pensavo, guardandola negli occhi, la prima volta che l’ho incontrata.

Avete presente gli appuntamenti al buio? “Un amico dice che un’amica” e il giorno dopo ti ritrovi al tavolo con una sconosciuta, entrambi imbarazzati davanti a un caffè che fuma. Successe anche a noi, un giorno caldo d’estate,  e il mondo – da allora – non fu più come prima.

“Mi spiace, non sono un gran conversatore”, le dissi poggiando la tazza sul piano, con la cura affettata di chi cerca un contegno, e le parole.

Lei sorrise, di un sorriso delicato, poi chiuse gli occhi e respirò quel silenzio, teneramente, come si dà un bacio. E quando un ciuffo, cadendo, le spettinò i pensieri, schiuse le labbra come si apre una porta, lentamente, per lasciar entrare: “E’ una splendida giornata, non trovi?”.

La sua voce era un soffio leggero, come la nuvola che ora attraversava il cielo e annunciava che l’odore del mare ci avrebbe raggiunti anche lì, lontano, poiché certe cose – le più preziose – le porti dentro e non hai bisogno di guardare. Poi tornò ai miei occhi, contando le parole come si misurano i ricordi, attimo per attimo: “Parlami di te”.

Eh. Silenzio, ma fu un attimo: “Sopravvivo a me stesso. La mia vita si riduce a questa lotta”. Un respiro, lungo, come immergersi nell’acqua per toccare il fondo, e quando risalendo incrociai il suo sguardo, compresi finalmente quel che a tredici anni non avevo capito.

Pareva che i suoi occhi, scavando nei silenzi, entrassero pian piano nei mie abissi più nascosti, così oscuri e segreti e remoti da esser sconosciuti anche a me stesso. Vivevo nei suoi occhi la magia di un tempo sospeso in cui le voci e i rumori del mondo erano muti e lontani, come le stelle che attraversano la notte, come il silenzio tra due pensieri, prima di un bacio. E’ lì che si ama, nel tempo breve e sospeso di uno sguardo, in quell’attimo eterno in cui ogni voce si dissolve, ogni barriera cade e non servono parole. E quando il tizio dal bancone, spezzando il silenzio, urlò all’improvviso “amico, serve altro?”, tutto, in quel momento, acquistò un senso, finalmente. Tutto mi fu chiaro.

Allora cercai il suo sguardo, una volta ancora, come si cerca la speranza: “Andiamo al mare?”. Lei sorrise, e mi porse la mano.

Amore è lo stupore di un brivido inatteso che attraversa la pelle l’attimo prima che il cuore rintocchi più forte, quel soffio caldo che percorre le labbra – lentamente – e subito dopo diventa sorriso. E’ stringere le mani della donna che ami, ma stringerle forte, come un sogno che al risveglio non vuoi lasciare andare, e quando lei va via – e scioglie quella trama – Amore è chiudere le mani e serrarle nelle tasche, per conservare il suo calore e sentirlo sulla pelle anche quando lei è lontana.

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