“La peste” di Albert Camus: la voce di chi prima di noi ha scritto la paura

by Paola Manno

In questi giorni di grandi ansie collettive, di messaggi allarmanti e di allarmate citazioni, ho anch’io il mio riferimento letterario, dal titolo chiaro chiaro: La peste. Per fortuna è uno dei romanzi più potenti del ‘900, che ho sempre definito immenso perché la riflessione dell’autore mi pare tocchi momenti altissimi di pensiero, e di umanità. Quindi, se questo momento di forti preoccupazioni può spingerci all’azione del pensiero, ben vengano le voci di chi prima di noi ha scritto la paura. Il romanzo venne pubblicato nel 1947 e la peste a cui Camus fa riferimento è un male metaforico: gli orrori del nazismo appena sconfitto. I meccanismi della conoscenza del male e quelli della resistenza appaiono tuttavia gli stessi e sono descritti con acume nel romanzo dell’autore che vinse il Nobel «Per la sua importante produzione letteraria, che con serietà chiarificante illumina i problemi della coscienza umana nel nostro tempo».

Nato nel 1913 in una famiglia povera di pieds-noirs in un paese in Algeria, allora colonia francese, Camus conobbe la malattia (la tubercolosi lo colpì da giovane) ma anche la rivalsa: lo studio non solo lo rese libero, ma eterno. Si trasferì in Francia dove iniziò a lavorare per diverse redazioni, tra le quali la partigiana Combat, ed ebbe modo di conoscere moltissimi grandi intellettuali europei, tra i quali Sartre, che coinvolse nel lavoro del giornale clandestino. Aderì all’ideologia comunista ma fu sempre molto critico nei confronti dei Soviet, in seguito il suo pensiero sfociò in una sorta di anarchismo con posizioni molto personali.

La Peste è un’opera che racconta chiaramente gli ideali dell’autore, descrivendo il suo posto nel mondo.

La storia è quella di una città di una colonia francese, Orano, colpita dalla pestilenza, del medico Rieux, che ne narra le vicissitudini, e di un gruppo di cittadini che affrontano l’emergenza. Come in ogni tragedia, all’inizio la mente rifiuta di vivere l’inferno.

Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione. I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni? Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché ci saranno dei flagelli.

Così il flagello diventa reale, obbligando i cittadini ad agire come se non avessero sentimenti individuali, ed ecco che lo stare insieme diventa prima la soluzione d’emergenza (le porte della città vengono chiuse ed i cittadini costretti a vivere in quarantena) ma anche l’unica possibilità per sconfiggere il male. È una sorta di cupa lotta tra la felicità di ciascun uomo e le astrazioni della peste, così la vita della città dipende dal bene comune.

Di fronte alla peste, un tempo considerata un vero e proprio flagello divino, il pensiero di Dio diventa dominante per gran parte della popolazione. Dall’altra parte vi è invece la visione laica, razionale del medico protagonista Rieux. Egli non crede in Dio, vive nelle tenebre, ma cerca di vederci chiaro. Rieux ha un’altra idea dell’amore, che parte dal rifiuto del dolore (-Rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati! Dichiara a un certo punto il medico); a suo avviso bisogna essere essere pazzi, ciechi o vigliacchi per rassegnarsi alla peste, nonostante la malattia abbia tolto a tutti la disposizione all’amore e all’amicizia. Ci si sente soli, si è soli, eppure il contatto umano resta uno dei bisogni più importanti. C’è una scena che a mio avviso lo racconta bene, e che trovo molto poetica:

A volte, a mezzanotte, nel gran silenzio della città ora deserta, al momento di coricarsi per un sonno troppo breve, il dottore girava la manopola della radio. E dai confini del mondo, attraverso migliaia di chilometri, voci sconosciute e fraterne provavano goffamente a dire la loro solidarietà e la dicevano, infatti, ma dimostravano anche la terribile impotenza di ogni uomo nel condividere davvero una sofferenza che non può vedere: “Orano! Orano!” Invano l’appello attraversava i mari, invano Rieux ascoltava attento, ben presto l’eloquenza cresceva sottolineando ancor più l’intrinseca distanza che faceva di Grand e dell’oratore due estranei. “Orano! Sì, Orano! Ma no, pensava il dottore, non c’è altra risorsa che amare o morire insieme. E loro sono troppo lontani.

Il bisogno di calore umano, quello che spinge gli uomini l’uno verso l’altro, è un sentimento dominante nel romanzo e si incarna nei personaggi di Tarrou e Rambert, secondo il quale forse c’è da vergognarsi a essere felici da soli.

La peste, secondo Camus, è un continuo ricominciare.

Di fronte al male, dunque, l’unica cosa è il fare. Con la testa, con il cuore, un cuore forte che serve a ricominciare ogni giorno, per sopportare le venti ore quotidiane in cui Rieux vede morire uomini che erano fatti per vivere.

L’azione, tuttavia, non è da considerarsi un atto eroico. Col dare troppa importanza alle belle azioni si finisce col rendere un indiretto omaggio al male. Queste, in tempi oscuri, hanno valore proprio perché sono rare ma l’autore è convinto che gli uomini siamo più buoni che malvagi. Il problema è che il male viene quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà, se non è illuminata, può fare altrettanti danni della malvagità.

La visione del bene viene quindi rappresentata dal lavoro quotidiano di un medico in mezzo alla malattia, che è esattamente lo stesso dell’intellettuale sotto la dittatura nazista; un uomo ormai stanco del dolore, ma che non smette di sentire la sua rivolta. Un uomo, infine, che non prova alcun interesse per l’eroismo e la santità, ma la cui unica aspirazione è essere un uomo.

Il romanzo si conclude con il debellamento della peste: la gente ricomincia a vivere e la città di riempie d’esultanza e di speranza, un’esultanza che però resta minacciata, perché il bacillo della peste non muore né scompare mai, e si sarebbe svegliato prima o poi, e avrebbe mandato i i suoi topi a morire in una città felice. Come a dire, non illudiamoci di poter vivere sereni.

Eppure, nonostante il famoso finale realista e perentorio, per me La peste resta uno dei romanzi che racconta con più forza l’ideologia che esalta la giustizia sociale e l’amore tra gli uomini. Il momento gioioso della liberazione dal male è infatti la ricompensa per coloro che non fanno affidamento alla potenza di Dio, ma che si accontentano dell’uomo e del suo povero e terribile amore.

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