La regola del viaggio

by Massimo Fragassi

Ho venticinque anni.

Papà morì quando ne avevo nove.

Mi dissero che era partito per un lungo viaggio e io, ancora oggi, mi chiedo quale fosse la sua destinazione. A volte penso che sia ancora lì, al bancone, guardando l’orologio in attesa di un treno che lo riporti a casa. E quelle volte, non mi vergogno, lo aspetto ancora.

La vita, in fondo, non è che un tabellone di partenze, arrivi e coincidenze senza orario, e allora ci affanniamo a rincorrere un binario convinti che partire o ritornare sia il destino di ogni viaggio, e smontiamo e rimontiamo il nostro armadio poiché il peso del bagaglio – ci illudiamo – è tutto in quella scelta.

E invece no, mio padre me l’aveva insegnato: che tu sia viaggiatore, turista o spettatore l’unica regola di un viaggio è tornare cambiati. E io, dal suo viaggio, sì ch’ero cambiato. Dio solo sa quanto. Ma serviva davvero tutto quel dolore?

Forse è per questo che non sopporto gli addii o magari è perché, per quanto mi sforzi, non ne comprendo la ragione.

Anche Claudia lo sapeva, ma quel giorno, alla stazione, eravamo già distanti, come solo sanno esserlo gli amanti quando accettano il dolore che, per quanto intenso e bruci, è la sola soluzione per non farsi ancora male.

Mi disse che quando muore un amore è giusto perdersi per sempre, perché niente di quel soffio di vita che fu solo nostro possa mai confondersi col vento, ché le incognite del tempo non scalfissero il ricordo.

«Allora addio», sussurrò, «e se puoi non portarmi rancore». Poi sfilò la mano che custodivo stretta e, guardandomi negli occhi, salì lentamente sull’ultimo vagone di quel treno che da Roma la portava via. Lontano.

Le urlai «hai mai sentito come batte forte il cuore di chi sta morendo dentro?» ed è strano ma, proprio in quel momento, dalla coda del convoglio, fischiò deciso il capostazione, come se il destino avesse voluto imporci quella conclusione che ora, da solo, non riuscivo ad accettare. E quando lo stridore, dai timpani, rimbombò nella mente e poi giù, di corsa, fino al cuore, tacitando in un attimo di esitazione la danza inquieta e disperata dei suoi battiti, ripensai alla vita, a mio padre, e alle parole scarne di quel signore che al funerale mi prese in disparte e sussurrò, con un filo di voce, «vorrei poterti dire che sarà il tuo ultimo dolore…».

Un rumore, poi la porta del vagone si chiuse d’improvviso alle sue spalle e la linea del viso e il suo sorriso si confusero nel riflesso irregolare che l’ultimo sole proiettava da ovest sul finestrino.

D’istinto guardai in alto, all’orologio del binario, che meccanico e lontano inspirava e rintoccava – ancora…ancora…ancora… – e in quel attimo pensai a quanto avara possa essere la vita quando cerchi di chiuderne nel pugno destro una manciata e sfogliando le dita, lentamente, ti accorgi solo dopo che è volata dove unici, i ricordi, trovano dimora.

Così guardai l’ora e mi chiesi se anche lei avesse in gola quel nodo forte e stretto che mi impediva di gridare «ho bisogno di te, delle tue mani, non andare ancora», e mentre mi perdevo e la perdevo, ora veramente, Claudia infilò il corridoio senza voltarsi, non una parola: era tardi anche solo per guardarsi e dirle «ti amo».

Fu l’ultima volta che la vidi, l’ultima volta che cercai invano una ragione dove mente e cuore semplicemente stanno, come in cielo la luna dopo il sole.

Uscii dalla stazione, fuori pioveva, e accesi una sigaretta.

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