La storia della diabolica Giuditta, il fantasma di Castel Capuano

by Eugenio D'Amico

Castel Capuano, eretto per difendere le mura nord orientali di Napoli, dopo essere stato splendida dimora reale con Federico II di Svevia e con gli Angioini, nel XVI secolo, con il Vicerè spagnolo Pietro de Toledo mutò destinazione per diventare la sede di tutti i Tribunali, civili, penali ed amministrativi, funzione che ha assolto fino a qualche decennio fa. Nei sotterranei di quello che da allora fu chiamato Palazzo della Vicaria, poiché il Vicario del Regno era deputato a presiedere al governo del potere giudiziario, furono collocate le carceri e le celle dove erano rinchiusi quelli che la Gran Corte Criminale della Vicaria condannava alla pena capitale.

I condannati a morte trascorrevano l’ultima notte prima dell’esecuzione nella Cappella della Sommaria e il mattino dopo, incatenati tra le guardie e accompagnati dai confratelli dei Bianchi della Misercordia, in lugubre corteo uscivano dal Castello e dal Decumano Maggiore (oggi via dei Tribunali) si dirigevano, attraverso Porta San Gennaro, in un largo spazio fuori delle mura detto Largo delle Pigne (oggi Piazza Cavour nei pressi del Museo Archeologico Nazionale), dove erano innalzate le forche.

Perciò in Castel Capuano, secondo le voci popolari, dovrebbero aggirarsi oscure presenze, spettrali testimonianze delle tragiche vicende che si concludevano nei sotterranei. A sentire gli abitanti di Porta Capuana, una presenza particolarmente agghiacciante è quella che si fa sentire soprattutto all’avvicinarsi del 19 di aprile, quando il fantasma disperato di una donna ancor giovane esce dalla Cappella della Sommaria, e urlando e piangendo percorre più volte quella che era la Sala delle Udienze Pubbliche della Camera della Sommaria, e che oggi viene detta Sala dei Busti poichè espone i busti in bronzo e in marmo dei principi del foro napoletani.

E’ l’anima dannata di Giuditta Guastamacchia, diabolica ispiratrice e prima esecutrice di un orrendo delitto che il 19 aprile del 1800 la condusse alla forca  insieme ai suoi tre complici.

Secondo le cronache, Giuditta Guastamacchia all’epoca dei fatti aveva circa trentacinque anni ed era una donna tanto bella quanto spregiudicata. Giunta giovanissima a Napoli delle province pugliesi, dopo la morte del marito, giustiziato per furto, divenne amante di un prete originario di Terlizzi che spacciava per suo zio. Per meglio tenere nascosta la relazione, i due amanti chiamarono da Terlizzi un nipote del prete di appena sedici anni che la donna irretì fino a farsi sposare. Ben presto, però, il ragazzo, subdorando l’inganno, abbandonò Giuditta e tornò in Puglia minacciando di denunciare la tresca. I due amanti allora, preoccupati per l’eventuale scandalo si accordarono per ucciderlo. La donna coinvolse nella trama delittuosa suo padre a cui fece credere di aver subito gravi torti dal marito, un barbiere amico di famiglia ed un chirurgo che abitava con loro a Napoli, entrambi sedotti dalle sue grazie.

Il piano delittuoso era semplice: il ragazzo sarebbe stato riportato a Napoli dal padre di Giuditta e dal barbiere e una volta giunto a casa sarebbe stato ucciso ed il corpo tagliato e pezzi e bollito per evitare ogni riconoscimento. Così avvenne, anche se il prete all’ultimo momento si rifiutò di partecipare all’esecuzione e si allontanò dall’abitazione. Gli altri aggredirono il ragazzo e lo strangolarono con una corda e la più crudele fu proprio la donna che infierì sul moribondo e provvide poi a bollire i pezzi del cadavere che aveva sezionato insieme ai complici. Poi, a notte fonda i quattro delinquenti uscirono per andare a disperdere i macabri resti, ma una ronda sorprese il barbiere con le membra dell’ucciso e lo costrinse a confessare il delitto. Giuditta e gli altri due complici tentarono invano la fuga. Arrestati, furono tutti condannati a morte, tranne il prete che essendosi dissociato dal delitto all’ultimo momento, fu condannato all’ergastolo.

Così a soli 35 anni  Giuditta Guastamacchia concluse la sua torbida esistenza sulla forca, e la sua testa e le sue mani furono amputate ed esposte sulle mura della Vicaria dietro i graticci di ferro, secondo quanto prevedeva la legge del tempo.

Da allora il suo spettro si aggira senza pace tra le mura di Castel Capuano accompagnato spesso dalle ombre dei suoi complici.

Il suo cranio, finito tra i cosiddetti “Crani della Vicaria”, le teste dei condannati a morte oggetto degli studi frenologici del professor Miraglia che agli inizi dell’Ottocento anticipò le ricerche del Lombroso tendenti a dimostrare la relazione tra alcune caratteristiche fisiche e le tendenze criminali, è oggi esposto nella Sezione di Anatomia del MUSA, il Museo Universitario delle Scienze e delle Arti della Seconda Università di Napoli.

Eugenio D’Amico

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