È in uscita, nelle librerie e negli store digitali, “Le ghirbe di Monéden”, il primo romanzo scritto da Matteo Borgia, giornalista foggiano, collaboratore di numerose testate giornalistiche e sceneggiatore.
Alla prova con la narrativa, Borgia racconta una storia d’amore: l’amore di Marco e Marie, due ragazzi cresciuti in famiglie dove non hanno avuto riferimenti genitoriali forti, visto che per motivi diversi sono stati allevati dalle rispettive zie. Un amore che inizia con un viaggio – perché i due si conoscono durante uno di quelli che oggi chiameremmo viaggi di istruzione, una gita scolastica – e si sviluppa di viaggio in viaggio. I due protagonisti trascorrono una esistenza spensierata, raggiungono una certa agiatezza economica – o meglio diventano propriamente ricchi – e se la godono, senza eccessi ma senza farsi mancare niente. Sono all’apice del successo, dopo una carriera piena di gloria e onori, quando si accorgono che alla loro vita, per essere veramente compiuta, manca qualcosa. Decidono, dunque, di fare un figlio. E qui iniziano i drammi: accantonata la via naturale, intraprendono la strada dell’adozione, prima nazionale e poi internazionale, affrontando il calvario cui si sottopongono tutti quelli che percorrono questo cammino, ed anche strade alternative, eticamente dubbie. Il loro desiderio si trasformerà dapprima in ostinazione e poi in vera e propria ossessione, tra sogni e delusioni, speranze e fallimenti, portandoli a scoprire aspetti del Mondo di cui nemmeno sospettavano l’esistenza e ad interrogarsi sull’essenza stessa della vita.
bonculture anticipa il prologo e un passo del primo capitolo del libro di Matteo Borgia.
Terminal
Seduto nella saletta laterale dell’area doganale, Marco attendeva da diverse ore il nulla osta per poter riprendere il suo viaggio. Non sapeva quale aereo avrebbe preso, né dove l’avrebbe condotto, e neppure gl’importava più di tanto. Adesso l’importante non era la destinazione, ma ripartire. Tutto quello per cui era valsa la pena di vivere negli ultimi quarant’anni e passa, se l’erano portato via degli zelanti ufficiali di dogana. In cambio, gli avevano lasciato una marea di moduli da compilare e delle cedole di pagamento, oltre ad uno scarno prospetto di ricevuta, che aveva nervosamente arrotolato e srotolato con le dita, come si fa con la cartina di una sigaretta, tante di quelle volte che ormai il foglio rilasciava una sottile polverina bianca, che lui raccoglieva strisciando la parte esterna del mignolo sulla scrivania di formica wengé. Ogni tanto infilava le mani nelle tasche, come se cercasse qualcosa in qualche sfuggito angolo remoto, prima nei pantaloni, poi nella giacca. Le esplorava una ad una, le rivoltava, scoprendole desolatamente vuote. Infine, componeva un numero sul telefono, ma l’unica riposta che riceveva era, ormai, il segnale della batteria quasi scarica. Non aveva nessuna fiducia in quella rassicurazione molto formale, “faremo prima possibile”, che gli era stata rivolta, sapeva che le procedure di accertamento avrebbero richiesto tempi molto lunghi. Non poteva far altro che aspettare che accadesse qualcosa. Il grande monitor di servizio laterale rimandava, ad intervalli regolari, le immagini delle telecamere di sorveglianza, e cominciò a guardare in giro, per capire dove fossero posizionate. Ne scoprì almeno tre, in quella stanzetta. Una, in particolare, stava in alto, subito dietro quel grande schermo piatto, e per un brevissimo lasso di tempo dava a chi era sulla sedia la sensazione di guardarsi allo specchio. Marco si scoprì allora molto invecchiato. I capelli sale e pepe, orgoglio della sua mezza età, si erano diradati e ormai quasi del tutto incanutiti, gli occhi erano scavati e delle profonde rughe solcavano la sua fronte. Quasi non si riconobbe. Le basette lunghe e spettinate e la barba incolta davano l’idea di una persona trasandata, in forte contrasto con l’abbigliamento elegante e l’orologio di marca indossato al polso. Soprattutto in antitesi con la vita attiva e dinamica che aveva alle spalle. Erano trascorsi poco più di due anni da quando aveva varcato quella stessa soglia doganale, all’andata, pieno di speranze, di sogni, di progetti per un nuovo, possibile futuro. Ora tutto gli sembrava così lontano, passato. E per la prima volta provò un profondo senso di solitudine.
Sì, viaggiando
In tutto questo viaggiare e lavorare, la coppia aveva raggiunto uno stato di prosperità non comune, e non si faceva mancare proprio nulla. Quando le zie di Marie morirono, poi, le lasciarono in eredità un patrimonio piuttosto cospicuo, sia in beni immobili che in liquidità. Patrimonio che Marco, a partire dalla metà degli anni novanta, cominciò a moltiplicare in maniera esponenziale speculando in borsa, grazie al suo indubbio talento per gli affari ma anche alle acquisite competenze informatiche ed in materia economica e aziendale, ottenute frequentando i numerosi master e corsi di formazione cui aveva dovuto partecipare per tenersi aggiornato col suo lavoro. Cosicché, all’inizio del nuovo millennio, lavorare per loro era diventata una facoltà, una specie di hobby. Marco divenne prima socio, poi azionista della multinazionale per la quale aveva lavorato come manager, infine divenne amministratore delegato, o CEO come dicevano nell’ambiente finanziario, di una società controllata. Ciò gli permise di disporre addirittura di un piccolo elicottero per potersi spostare più agevolmente. Per festeggiare i cinquant’anni, Marie gli comprò nientemeno che una villa in Sardegna, dove per un paio d’anni la coppia trascorse il periodo estivo, e furono i periodi in cui i due, probabilmente, stettero insieme più tempo. Un investimento, almeno nelle intenzioni, che però dava loro la possibilità di frequentare il jet set internazionale che in quell’epoca, d’estate, aveva eletto la Costa Smeralda, che fu del principe Aga Khan e che con il Billionaire aveva ritrovato tutto il suo glamour, come ritrovo privilegiato per i paparazzatissimi party di cui tutta la stampa scandalistica parlava. Amavano il divertimento, il chiasso, le feste, la compagnia degli amici, ma non gli eccessi. Sapevano apprezzare, e molto, le gioie che potevano derivare dal loro status di ricchi, però amavano i posti incontaminati, sapevano godere della bellezza di un paesaggio, dello spettacolo offerto dall’ambiente naturale. Il loro passatempo preferito, durante quel tempo gallurese, era passeggiare, mano nella mano, in spiaggia. Oppure sedere sulle sdraio, con lo sguardo rivolto verso il mare di quel colore verde-blu intenso, raccontandosi i particolari dei loro viaggi che ancora non si erano scambiati. Spesso ridevano, di gusto, scatenando l’invidia di chi era vicino. Fu proprio durante una sera d’estate, mentre ammiravano il tramonto dal terrazzino della villa, che Marco chiese a Marie: «E tu, cosa vorresti, per il tuo prossimo compleanno?» Marie indugiava, Marco prese l’iniziativa. «Ho visto una nuova gioielleria, su in centro. C’è un magnifico collier in diamanti, certo, vale un po’ meno della villa.»
«Ma no, dai, cosa dici. Sai che il gioiello più prezioso lo porto sempre con me.» Marie prese tra le mani una medaglietta di scarso valore, comprata a Parigi durante il loro primo soggiorno, con incisa in francese la promessa di stare per sempre insieme. «I diamanti sono troppo impegnativi, avrei paura di perderli.»
«Allora dammi un’idea, non è giusto che io debba sempre ricevere regali da te senza mai poter ricambiare» disse Marco fingendo di spazientirsi.
«Sai cosa mi manca davvero?» disse lei sospirando, «un figlio, magari una femmina. Ho sempre pensato che potesse essere un problema, invece adesso che sto invecchiando…»
«Ma quale vecchia, sei bellissima… e poi, femmina, perché se fosse un bel maschietto come me, che facciamo, lo buttiamo?» chiosò Marco, stirando le vocali come si fa in dialetto calabrese. In verità anche lui cominciava a sentire il peso degli anni e quella richiesta imponeva una riflessione che fosse più d’una semplice battuta. La novità rischiava ora di sconvolgere tutti gli equilibri su cui si era fondata la loro convivenza.
Già, il lavoro, la carriera, i viaggi, e poi quel desiderio di spostare sempre più in là gli obiettivi, era come se tra moglie e marito si fosse messa in moto una specie di competizione, a chi era più bravo, a chi la faceva più grossa. Niente di mai dichiarato, per carità, però ognuno pareva voler dimostrare all’altro di poter mettere in piedi un nuovo progetto, sempre più ambizioso, e di poterlo portare a termine. Una sfida che ognuno faceva con se stesso, ma che inevitabilmente finiva col misurarsi con il successo dell’altro.
L’idea di espandere la famiglia non li aveva mai neppure minimamente sfiorati. Forse per egoismo, perché assieme, loro due, si bastavano, stavano troppo bene per immaginare qualcosa oltre loro stessi che li perfezionasse. O forse perché non erano abbastanza egoisti da pensare di mettere al mondo un figlio. Forse perché da piccoli non erano stati educati all’idea della famiglia, almeno non di quella elementare composta da genitori e figli. Forse per quella maledetta paura di bagnarsi, che ad un certo punto era diventato una specie di gioco o forse un vero tabù. Forse pensavano che la felicità già gli appartenesse. Quel giorno, contemplando la natura, si accorsero invece che la loro vita era incompleta.