L’esempio del lockdown tedesco e la noce moscata

by Enrico Ciccarelli

Trovo abbastanza interessante la reazione italiana (specialmente quella a livello epidermico e social) alla sofferta decisione tedesca, che una accorata Angela Merkel ha spiegato al Bundestag (non in una conferenza tv in primetime, non con una diretta facebook; questi crucchi sono bizzarri, si sa). Si tratta di un lockdown piuttosto severo, anche se meno drastico di quello italiano dello scorso marzo-aprile, che nelle intenzioni dovrebbe resettare il contagio per prevenire una terza ondata.

Mi ha colpito soprattutto la diffusa adesione al provvedimento e il pressante invito a fare altrettanto da noi. Ovviamente non da parte delle categorie (i commercianti, soprattutto) che sarebbero schiantati da queste misure, che peraltro in Germania saranno sostenute, se ho letto bene, da aiuti per undici miliardi di euro al mese, roba da far impallidire tutti i nostri “ristori”; ma c’è una parte consistente dell’opinione pubblica che, all’insegna del primum vivere, deinde filosofari, ha abbracciato una prospettiva concentrazionaria, che sembra agognare a una impraticabile Wuhan occidentale.

Quale che sia il giudizio su questi atteggiamenti, che sembrano ricalcare l’antico schema di un homo italicus in perenne altalena fra ribellismo anarcoide e fascismo, mi colpisce soprattutto la totale assenza di riflessione sul dato più evidente: i provvedimenti tedeschi non sono una battuta d’arresto o una sconfitta, ma una capitolazione.

Perché se il più forte, il più ricco e meglio organizzato Paese d’Europa paventa il rischio di soccombere al virus, non significa solo che sono destituite di ogni fondamento le baggianate sulla seconda ondata dovuta alle discoteche e alla “pazza gioia” estiva, indecente costruzione di una colpevolizzazione dei cittadini tesa ad assolvere e nascondere i limiti e gli errori dei poteri pubblici e della comunità scientifica (rectius, della sua parte contigua ai poteri e di essi talora vergognosamente succube): significa anche –e soprattutto- che il superbo e tecnologico Occidente è vulnerabile in sommo grado a questo nemico (in virtù della sua demografia, della sua densità, della sua anagrafe), e che lo affronta con mezzi complessivamente non dissimili da quelli di quattro o otto secoli fa.

Mancando una qualche villa di Certaldo dove rifugiarsi a raccontare storie, ce la caviamo con videoconferenze; ma rispetto alla peste nera la strategia di allontanarsi dai propri simili ed “eremitizzare” la propria esistenza non è cambiata. Con la differenza che di eremi efficaci c’è una certa scarsità.

Non sarà ozioso ribadire, nel Paese dei like ad Agata di Mondello, che le misure e le precauzioni suggerite o imposte non sono del tutto inutili: una malattia contagiosa festeggia alla grande in stadi colmi e veglioni affollati. Ma nessuno è in grado di stimare in che percentuale questi palliativi abbiano inciso, anche se la mappa mondiale del contagio permette di escludere che si sia trattato di un peso decisivo.

Il dato di fatto è che ci troviamo nella pratica impossibilità di azzerare i contagi e nella confusione più totale per la strategia di cura. Malgrado i ripetuti annunci e le diverse ricette miracolistiche (si veda il plasma iperimmune), abbiamo ancora diverse lingue e orribili favelle sulle terapie, mentre brancoliamo nel buio per quel che riguarda recidive e immunità. Battaglia terapeutica che sembriamo avere del tutto abbandonato, nell’attesa messianica del vaccino.

L’abdicazione è ancora più totale dal punto di vista culturale e sociologico: si glissa sulla evidenza drammatica di un numero di morti in rapporto ai contagiati e alla popolazione fra i più alti al mondo o si escogitano per esso giustificazioni fantasione come la “povertà” del nostro Servizio Sanitario Nazionale: affermazione vera se la rapportiamo ai sistemi di Francia e Germania, certo; ma del tutto strampalata rispetto –che so- a Slovacchia, Slovenia, Bulgaria, che pure se la stanno cavando assai meglio.

Alla fine, con tutte le nostre presunzioni, la nostra farmacopea, le lucenti macchine che adornano i nostri Ospedali, non siamo poi così cambiati da quando, fra Trecento e Settecento, praticavamo superstizioni contro l’incubo della peste nera e quella bubbonica. La più diffusa fra esse era il ricorso alla noce moscata. L’umile spezia era al tempo contesa a peso d’oro fra i ricchi, che la portavano al collo chiusa in un sacchetto di tela o di cuoio. Proteggeva dal morbo, pensavano, e non avevano del tutto torto: perché la noce moscata è un repellente dei ratti, e le pulci da ratto erano i vettori della malattia (insieme alle zanzare che trasmettevano il sangue infetto).

Non era affatto un rimedio, ben si intenda; ma nel buio ci si aggrappa a qualsiasi luce, per quanto tenue o fatua. Ed era così forte la fede di quella umanità nelle virtù della noce moscata che il trattato di Breda (1667) fra la Gran Bretagna e i Paesi Bassi sancì la rinuncia olandese a Nieuw Amsterdam (che così prese il nome di New York) in favore di Sua Graziosa Maestà Britannica. In cambio gli Olandesi ottennero, con la rinuncia inglese all’isola indonesiana di Run, il monopolio mondiale della produzione di noce moscata. Con il senno di poi fu un pessimo affare per gli Olandesi, paragonabile solo allo scambio Boninsegna-Anastasi. Ma al tempo non potevano saperlo. E chissà mai cosa penseranno, i posteri fra tre secoli, delle nostre mascherine e delle tende-fiore dell’ineffabile Domenico Arcuri.

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