Era il 1963 quando i Rolling Stones cantavano “Time is on my side“, il tempo è dalla mia parte. Io non ero ancora nata, loro avevano vent’anni. Oggi ne ho cinquantatré, e loro cantano ancora. Il tempo è stato dalla loro parte, forse anche dalla mia. Fino a quando? Nessuno può dirlo.
Quando, scherzando, qualcuno mi chiede se per caso sia caduta da piccola, rispondo di sì: sono caduta dalla culletta in cui mi deposero in ospedale, dopo una nascita già parecchio avventurosa, e sono sopravvissuta. A quella e a parecchie altre traversie. E ora, di fronte al Coronavirus, come il bambino di Arzano, “io speriamo che me la cavo.”
Intanto, ammazzo il tempo bevendo caffè nero bollente, scrivendo, cucinando, cucendo. E benedicendo la mia infanzia così diversa da quella dei ragazzini di oggi; i lunghissimi pomeriggi estivi passati sotto la tettoia del terrazzo, quaranta gradi all’ombra, ad osservare la fila di formichine che ordinatamente facevano avanti e indietro, da un punto sotto le tegole al punto in cui avevo deposto delle briciole di pane, che spezzettavano con metodo e poi si caricavano addosso, portando un peso sproporzionato alla loro stazza minuscola.
Un antico proverbio afgano dice “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo“. Ai bambini della nostra epoca, di solito, l’orologio veniva regalato alla prima Comunione, che segnava un po’ l’ingresso nel mondo degli adulti. Prima delle medie, comunque, non ne avevamo bisogno. Non avevamo da incastrare gli allenamenti di scherma con le sedute dall’ortodonzista, con le lezioni di inglese avanzato e con quelle di pianoforte. Molti di noi non avevano neppure il telefono in casa, per parlare con gli amichetti occorreva scendere in strada e andare a bussare alle loro porte. Non ci serviva il cronometro, perché avevamo il tempo, che imparavamo a riempire con poco: una palla, un elastico, un fazzoletto bianco e pochi millimetri di gesso raccolto a scuola, quando per la maestra era da buttare, bastavano ad inventare giochi con cui passare ore ed ore. Imparavamo a star soli con noi stessi, che è il prerequisito per star bene con gli altri, e apprezzavamo la lettura, che ci apriva mondi lontani e infinite vite possibili, anche se Umberto Eco non lo aveva ancora scritto.
Tra le nostre più ardite, fantascientifiche immaginazioni c’erano i telefoni senza fili da portare in borsa, le automobili parlanti, a cui dire dove volevamo essere portati, e le macchine fotografiche che scattavano foto perfette, da vedere immediatamente. Appartengo ad una generazione fortunata, che ha visto avverarsi molte delle cose che in gioventù aveva sognato, ma che ha perso la capacità di soffermarsi su un fiore per sentirne il profumo, di guardare un buon piatto e di assaporarne con calma il gusto, di toccare il viso delle persone amate ad occhi chiusi, per ricordarne i lineamenti.
E a cosa serve avere telefonini in grado di documentare ogni attimo della vita e di condividerlo col resto del mondo, se poi non siamo presenti a noi stessi e, in quell’attimo, siamo già proiettati in centinaia di altre cose da fare, pensare, organizzare?
I primi giorni di quarantena, ammettiamolo, sono stati duri per tutti: improvvisamente ristretti nello spazio angusto di case sempre più somiglianti ad un pied-à-terre, in compagnia di persone che, ce ne stiamo accorgendo, non conosciamo affatto, anche se sono i nostri compagni e i nostri figli, con davanti il deserto di un tempo infinito, che improvvisamente ci fa paura.
La tecnologia aiuta, certo, a restare in contatto con il resto del mondo, ma fa anche comprendere quanto ingannevoli fossero le nostre percezioni sullo spazio e le nostre illusorie capacità di azzerare le distanze. Improvvisamente, il mondo ridiventa grande, grandissimo, impossibile da percorrere; le città dei nostri figli, partiti per l’Erasmus, non distano più poche ore di aereo, ma sono sideralmente lontane, irraggiungibili, mentre anche i nostri genitori anziani, dall’altra parte del paese, sono abbandonati alla paura, alimentata dal catastrofismo dei telegiornali e di una comunicazione che da troppo tempo non diffonde più buone notizie, perché la tivù commerciale ha bisogno del sensazionalismo per fare audience.
Non sappiamo quando finirà tutto questo e, anche se razionalmente non lo ammettiamo, siamo terrorizzati dall’idea che possa finire male, malissimo. Stiamo riscoprendo, nel peggior modo possibile, che la nostra scienza non è onnipotente e che non abbiamo un vaccino per tutto, ammesso e non concesso che i vaccini davvero proteggano dalle malattie, ma soprattutto stiamo riscoprendo la reale dimensione del tempo, che è molto più vasta di quanto pensavamo. Perché il tempo più lo si riempie e più rimpicciolisce, mentre diventa sterminato quando non possiamo più organizzarlo secondo i nostri schemi da occidentali evoluti, che devono cronometrarlo per farci entrare quanti più impegni possibili.
Come un Vasco Rossi d’antan, nell’attuale, inusitata circostanza, anche noi vorremmo trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha, e ci chiediamo, intanto, come ammazzare il tempo, nella speranza che il virus non ammazzi noi. Io ho risolto lasciando nel cassetto la mia dozzina di orologi, quasi tutti con movimento meccanico, a cui non sto dando nemmeno la corda. Non servono più, ora che la pandemia mi ha restituito il tempo.