“Proteggi te stesso e la tua umanità”. Una preghiera per Shady Habash

by Felice Sblendorio

A immaginare le urla disperate che implorano aiuto, nell’ultimo atto di una vita, il cuore non regge. Certe situazioni si possono solamente provare a sentire, avvicinandosi con rispetto per ridurre l’orrore che si sprigiona senza mezze misure: come un pugno in faccia, come un’offesa.

Shady Habash è morto sabato mattina, dopo una notte di grida inascoltate, allontanate come un fastidio, un ronzio di cui liberarsi. Era in carcere, a Tora, in Egitto, lo stesso Egitto di Giulio Regeni e di Patrick Zaki, sfortunatamente gli ultimi testimoni più vicini a noi delle conseguenze di un regime paranoico e criminale. Aveva ventidue anni e, dalle foto che circolano sul web, due occhi grandi sul mondo e il sorriso tipico di quell’età: l’illusione genuina che tutto potrà andare bene, basta volerlo, desiderarlo.

Non sempre succede, però, nella realtà. Da ventisei mesi attendeva un processo, in una delle carceri egiziane più note per le violazioni dei diritti umani e per le terribili condizioni dei detenuti. Di solito i numeri, o le date, servono per fare ordine: ma quando c’è una vita che scivola dalle mani in qualsiasi momento, distraggono, confondono. Provo a immaginare i giorni che riempiono questi mesi: sono quasi ottocento. Ottocento giorni in balia del tempo, che non ritornerà più, delle illusioni ripetute, della sorte, o peggio ancora del caso: così insensibile e cinico quando si sfiora l’indicibile. Era stato arrestato nel marzo del 2018. La sua colpa era quella di aver diretto da regista un videoclip musicale in cui il cantante Ramy Essam, uno dei più famosi cantanti egiziani e icona della rivoluzione di piazza Tahrir, faceva satira sul presidente Abdel Al-Sisi. La canzone, intitolata “Balaha” (letteralmente “dattero”, un termine ironico diventato il soprannome del Capo dello Stato), criticava la gestione politica del presidente a pochi mesi dalle elezioni. Dato che Essam era già in esilio in Svezia per sfuggire alla repressione, sono stati incarcerati Shady, l’autore del testo e il social media manager del cantante.

Da lì in poi, quella che è diventata una ritualità: né sentenza, né processo, né diritti. Le garanzie dell’uomo moderno, che si è fatto civiltà matura e vigile, cancellate con un colpo di spugna. Non è una novità. Da anni Amnesty International denuncia un potere politico che abusa e deforma la sua forza in maniera irriducibile sulle libertà dei cittadini, facendo ricorso a detenzioni arbitrarie, maltrattamenti, torture, sparizioni forzate, processi irregolari, condizioni di prigionia disumane. I numeri, ancora una volta, mancano d’anima perché disattenti, imprecisi. Le vittime, le persone scomparse e incarcerate in questi anni in Egitto, sono dei fantasmi: non c’è alcuna traccia visibile, non c’è nessun collegamento che unisca ogni singolo destino al tetro disegno di repressione generale di quel regime politico.

Il Centro Adalah per i Diritti e le Libertà ha documentato la morte per negligenza medica di almeno 22 detenuti nei primi sette mesi del 2019 nelle carceri egiziane. L’Arab Organisation for Human Right sostiene che, dal 2013, più di 600 persone sono morte a causa delle pessime condizioni igienico-sanitarie o per la mancanza di cure mediche. Poi ci sono le torture, così estreme da provocare centinaia di morti: 717 persone solo nel 2018. Dal colpo di Stato con cui Al-Sisi ha depredato il potere, decine di migliaia di manifestanti, intellettuali e oppositori politici sono stati incarcerati. Dal 2015, nel carcere di Tora, i dissidenti vengono rinchiusi secondo le disposizioni di una legge sul terrorismo: basta anche un semplice post critico sulle autorità per essere accusati. 

È andata esattamente così anche per Shady Habash. Dopo quei drammatici ottocento giorni, senza la minima possibilità di difesa da capi d’accusa pesanti, è morto. Si sarebbe spento dopo aver accusato forti dolori allo stomaco, dopo una notte di agonie senza nessun aiuto, senza nessuna pietà. Il 26 ottobre ha scritto una lettera che oggi, con la sensazione del tempo che chiude le cose in maniera definitiva, rende vuota e insensibile questa parola, quell’umana pietà che si deve a chi combatte una battaglia con sé stesso e contro il mondo: “La prigione non uccide, lo fa la solitudine. Ho bisogno del vostro supporto per non morire. Negli ultimi due anni ho provato a resistere da solo a tutto ciò che mi stava succedendo continuando ad essere me stesso, ma ora non posso più andare avanti. Resistere in prigione significa resistere a te stesso. Proteggi te stesso e la tua umanità dall’impatto di quello che vedi ogni giorno. Ti fermi, dai di matto o lentamente muori perché sei stato buttato dentro una stanza due anni fa e sei stato dimenticato, non sapendo quando ne verrai fuori. Ho bisogno di supporto e ho bisogno che ricordiate che io sono ancora in prigione e che il regime si è dimenticato di me. Sto lentamente morendo perché so che sto restando solo di fronte a tutto. So che ho molti amici che mi vogliono bene hanno paura di scrivermi pensando alla fine che io possa uscire senza il loro aiuto. Ho bisogno del vostro supporto ora più che mai”.

C’è tutto in queste parole, che ora sembrano vestite di una tragica fatalità, ma che appartengono alle cose giuste, all’ultimo sguardo disincantato sul mondo quando la vita compressa non lascia più spazio alla luce, oltre quelle strettoie strette. “Si muore di solitudine”, scrive Shady. Proprio così: di solitudine e indifferenza. Quella di chi è sopra di noi – la politica, gli Stati, le comunità – e la nostra, esseri confusi e intermittenti, coinvolti in questioni umanitarie per periodi troppo brevi, brevissimi. Le luci della ribalta, l’attenzione mediatica, qualche tweet: tutto si esaurisce nel giro di poco, mentre i giorni passano e la libertà di chi ne viene privato diventa utopia. “Proteggi te stesso e la tua umanità”: l’impegno universale, che a pochi riesce. Soprattutto a noi, uomini geniali e forti accomunati dall’impotenza: così immobile, muta e astenica nei confronti di chi urla, si dispera, rantola chiedendoci un’ultima possibilità. Quelle urla sono e saranno una condanna: il nostro squarcio d’inferno per una voce e una vita, come quella di Shady, abbandonata e buia nel tormento dell’anima.

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