Soleimani, Trump e la vittoria di Olivecrona

by Enrico Ciccarelli

L’assassinio per mano statunitense del generale iraniano Quassem Soleimani è un atto di terrorismo al di là di ogni ragionevole dubbio. Non c’è infatti alcun conflitto dichiarato fra Stati Uniti d’America e Repubblica Islamica dell’Iran, né una figura di spicco di quello Stato può essere equiparata a un tagliagole come Al Bhagwadi (il Califfo dell’Isis recentemente ucciso).

Questo naturalmente prescinde da un giudizio morale sull’atto o sulla vittima; è un semplice dato di fatto, che può essere negato solo da chi pensi che il terrorismo sia sempre quello degli altri. Non è peraltro la prima volta che gli Stati Uniti considerano il ricorso all’assassinio politico un’opzione accettabile per perseguire i loro interessi. Sono agli atti i diversi tentativi della Cia di assassinare Fidel Castro, obiettivo per il quale fecero ricorso anche ai servigi della mafia italoamericana.

La novità è questa volta l’aperta rivendicazione, che chiama in causa i vertici stessi della potenza americana. L’operazione sarebbe stata decisa dal Presidente in persona, nella sua qualità di commander in chief, e l’inquilino della Casa Bianca ha pensato di gloriarsene in funzione elettorale.

Che questo gli porti bene in vista delle elezioni di novembre è possibile, ma non è scontato: dipende, detto con cinismo, da quanto sarà efficace la risposta iraniana. Che avrà certo caratteristiche terroristiche non inferiori. Non è per diffusione una minaccia paragonabile a quella dell’Isis (l’Islam sciita è di gran lunga meno numeroso di quello sunnita che annovera Al Qaeda, Daesh e i numerosi cani sciolti che hanno insanguinato l’Europa), ma ha dalla sua un retroterra assai più vasto e potente.

Le preoccupazioni per i soldati e le aziende occidentali presenti nello scacchiere mediorientale sono assai fondate, e tanto più grandi sono le paure per Israele, ma questo è il corredo permanente di una guerra a bassa intensità che si combatte ormai da quasi un secolo in un’area nella quale l’Europa, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti hanno fin qui fatto del loro peggio, comportandosi da apprendisti stregoni e inanellando “soluzioni” una più sciagurata dell’altra.

Sul piano teorico e culturale, tuttavia, questa iniziativa di Trump (l’omicidio e più ancora la sua rivendicazione) segna il tramonto forse definitivo di un’idea delle relazioni fra gli Stati (quel che si chiama Diritto internazionale pubblico) che ha da poco compiuto i 372 anni. Fu nel 1648, infatti che si concluse il lungo processo diplomatico e militare chiamato Pace di Vestfalia, termine della Guerra dei Trent’anni.

Costruita sui trattati di Osnabrück e Münster, la Pace di Vestfalia non disegnò solo una nuova mappa e un nuovo destino d’Europa, ma stabilì (con regole e cavilli che oggi ci sembrerebbero ridicoli) nuovi modelli per il confronto fra i Re, i popoli e gli eserciti. Henry Kissinger vi legge la nascita del primo tentativo di Ordine Mondiale, come scrive nel suo bellissimo e illuminante saggio omonimo.

Il complesso di norme, consuetudini e “filosofie” stabilito in questo cruciale snodo della storia resse con risultati relativamente accettabili fino al termine della Prima Guerra Mondiale, quando, sempre ad iniziativa degli Usa, si diede vita al primo organismo permanente di consultazione fra gli Stati, la Società delle Nazioni. Un tentativo dilettantesco che andò incontro a meritato fallimento.

Ma fu nei processi di Tokio e Norimberga che a queste idee venne dato il colpo di grazia: perché i capi militari e politici della Germania nazista e del Giappone imperiale vennero processati e giustiziati in nome di un “diritto dei popoli” e di una difesa della “umanità” che erano categorie prepolitiche e moraliste: la spada di Brenno dei vincitori si imbellettava di nobili propositi, non senza qualche risvolto interessante (per esempio la mitigazione del principio di autorità e la sua sottomissione al principio di fraternità, che travolsero la difesa dei gerarchi del Reich di avere “obbedito agli ordini”).

Come sempre, quando si parla degli Usa, brutalità e ideali sinceri, cinismo ipocrita e autentica pulsione umanitaria si mescolano in un tutto indistinguibile: ma è chiaro che un popolo che ritiene di essere un esempio planetario non può che essere indulgente con sé stesso, quando, “a fin di bene”, compie azioni violente o le favorisce. Penseranno poi un qualche film o libro al necessario lavacro penitenziale.

La riflessione più importante riguarda, come sempre, la storia del pensiero. Perché questo sommario excursus è anche la storia di alcune diverse teorie e filosofie del diritto.

La teoria della perseguibilità dei crimini “contro l’umanità” ha chiare ascendenze giusnaturaliste, cioè dell’idea (già presente in Sofocle) che ci siano norme anteriori a qualunque legge prodotta dagli uomini, e che ad esse, in caso di contrasto, debba andare il nostro rispetto.

Contro questo impianto, che ha il non lieve difetto di una totale vaghezza (se non l’avesse, avrebbero dovuto essere processati i generali Usa che ordinarono di colpire Nagasaki con la bomba atomica malgrado la capitolazione del Giappone fosse ormai certa), cercò di reagire il formalismo giuridico.

La dottrina pura del diritto, il capolavoro di quel gigante del pensiero che è stato l’austriaco Hans Kelsen, è il tentativo di espungere dal diritto qualsiasi fenomeno privo del requisito della giuridicità. Un’avventura del pensiero di indescrivibile potenza, troppo titanica per parlarne diffusamente qui. Ma basti dire che l’ombrello della grundnorm, la norma fondamentale presupposta, copriva agevolmente, per Kelsen, anche le relazioni internazionali.

È chiaro però che l’assassinio rivendicato di una figura rappresentativa di un altro Stato sovrano con il quale non ci sia una condizione bellica in atto travolge qualsiasi idea di diritto. È puro e semplice esercizio della forza. Così Trump, nell’antica disputa fra giuspositivisti e giusnaturalisti, finisce per dare ragione a un terzo incomodo, lo svedese Karl Olivecrona, ultimo e più prestigioso esponente della scuola del realismo scandinavo.

Olivecrona e altri pensatori consideravano il diritto un puro e semplice modo di organizzazione della forza dello Stato moderno, il Leviatano di Hobbes infinitamente più forte di qualsiasi individuo o gruppo di individui al suo interno. Categorie come diritto soggettivo o potere, per non parlare di diritti umani, sono secondo questa dottrina parole vuole di qualsiasi significato, essendo i sistemi di norme valutabili solo dal punto di vista della loro effettività ed efficacia.

“Basta che funzioni”, avrebbe chiosato Woody Allen. Non è importante che un atto sia giusto o legittimo; è importante che sia utile agli scopi dei detentori della forza (che naturalmente viene utilizzata a difesa dei popoli, dei principi, degli ideali e blablabla). Il mondo funziona e funzionerà sempre più in questo modo, con buona pace di quanti avevano sperato in un progresso umano capace di alzare il livello.

Naturalmente chiedo scusa ai cultori di diritto internazionale e di filosofia del diritto che dovessero leggere queste rozze e sommarie considerazioni: quello che tengo a dire è che i grandi fenomeni politici e sociologici sono inevitabilmente culturali. E che l’attacco alla cultura che procede dall’inizio del Terzo Millennio è strumentale e propedeutico a un mondo più brutale, più feroce, più diseguale. Lo si combatte anche rendendolo un po’ più giusnaturalista e un po’ più kelseniano. Senza nulla togliere alle preziose osservazioni critiche del buon vecchio Olivecrona.

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