Tornare agli antichi mestieri

by Davide Leccese

Dell’argomento si è fatto portavoce l’Osservatorio dell’Agenzia per il Lavoro Openjobmetis ponendo la questione se non sia necessaria – per i giovani – la riscoperta delle antiche “arti” che non solo riscoprono la creatività del “fare” ma anche, molto più concretamente, vanno a rioccupare quegli spazi lavorativi “artigianali” che sono rimasti vuoti in nome dell’industrializzazione dei prodotti e del “compri e butta”.

La crisi occupazionale – appesantita dalla presunzione di trovare lavoro e professione prevalentemente dietro una scrivania o nelle opzioni “intellettuali” – ha depauperato le abilità comportamentali delle nuove generazioni e le ha confinate in un mondo dell’offerta lavorativa e professionale non solo già fortemente intasata ma in forte contrazione per la crisi economica nazionale e mondiale.

L’errata concezione, poi, che l’istruzione (e il conseguente titolo di studio) dovesse assicurare il diretto passaggio al posto di lavoro (mai è stato così e mai dovrebbe essere) ha messo a nudo non solo l’illusione ma anche la presunzione che tutto fosse facile e diretta conseguenza della chiusura di un ciclo di studio per l’apertura di un ciclo lavorativo, per di più fisso e definitivo.

E’ anche vero che proprio la creazione di prodotti industriali – vittima del “taylorismo” esasperato che ipotizzava “l’operaio bue” (che vede il lavoratore come chi deve fare solo quello che gli viene ordinato senza crearsi problemi e senza neanche chiederne la ragione), ha tradito l’origine della parola “fare” – nata dal greco ποιέω [poieo], che vuol dire sì fare ma fare come “creazione”; creazione che solo la concezione artigianale e la “bottega” conservano nella migliore accezione. A supporto, poi, della fase creativa del “fare” va utilizzata un’altra parola greca: τέχνη (téchne) che significa “saper fare”, essere titolari del processo creativo con perizia e non come ripetizione di un gesto alla catena di montaggio; gesto sempre uguale a se stesso, alienante e spersonalizzante.

“Sì, ma questa è pura teoria”, possono ribattere i giovani; “I nostri genitori – magari operai e contadini o modesti lavoratori e impiegati – ci hanno fatto studiare per uscire dalla condizione di sudditanza economica e sociale tipica del subalterno non istruito, non protagonista della sua vita, nella speranza di una professione “nobile” da diplomato o laureato”.

La nobiltà di un lavoro – bisogna dirlo ai giovani – non sta nel “non sporcarsi le mani” ma nel guadagnare onestamente di che vivere e nella ricerca di quell’acquisizione di reddito dignitoso in qualsiasi forma d’impegno lavorativo, soprattutto quando il cono delle possibilità si restringe e convoca in opzioni o di “invenzione” o di “riscoperta” di un lavoro.

Falegnami, calzolai, pasticcieri, panettieri, sarti, carpentieri, restauratori: ecco i “nuovi professionisti” che ritrovano spazio nel mercato del lavoro.

Parliamo di “professionisti”; in questo le tecnologie hanno profondamente modificato la tipologia del lavoro artigianale con l’introduzione di apparati strumentali che il vecchio artigiano non conosceva e non usava. L’abilità del nuovo artigiano sta proprio nel saper fondere antica abitudine alla manualità con la moderna capacità di uso di tali nuove tecnologie, proprio grazie agli studi frequentati.

Ecco che allora τέχνη (téchne) che significa “saper fare” si fonde con ποιέω [poieo], che vuol dire sì fare ma fare come “creazione”.

Il ruolo della scuola: di tanto in tanto riappare la parola “laboratorio”; ogni tentativo o dichiarazione di Riforma cita questo termine e ne fa una sorta di bandiera del cambiamento.

Laboratorio non come luogo di apprendimento teorico dove la parola “precipita” dal docente all’alunno ma come “esperimento” sia della validità dell’insegnamento sia della qualità-congruità dell’apprendimento. Un luogo – prima mentale e poi fisico/strutturale – che consente la continua osmosi dell’antica deduzione e dell’antica induzione (dall’universale al particolare e dal particolare all’universale).

Richiamiamo – a sostegno dell’attività laboratoriale/artigianale – quanto avveniva, ad esempio, nelle botteghe dei grandi artisti di un tempo. Il Maestro dipingeva, scolpiva e il suo gesto era la guida per il progressivo gesto artistico degli allievi. Il Maestro “accudiva” l’apprendimento degli allievi che progressivamente passavano dall’imitazione all’originalità personale.

Se la scuola riscoprisse questo modo di fare laboratorio sarebbe un antico/modernissimo modo di tramandare le conoscenze, le competenze e le abilità nelle nuove generazioni.

A proposito: San Francesco ha detto: “Chi lavora con le mani è un operaio, chi lavora con le mani e la testa è un artigiano, chi lavora con le mani, la testa e il cuore è un artista”.

by Davide Leccese

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