Siamo scesi dall’auto assaliti da lance di fuoco che non ti aspetti a novembre e gettati nell’informe vuoto bianco di questo immenso piazzale antistante il sagrato del Santuario dell’Incoronata. La salita all’ingresso ora è più dolce allo sguardo per il ricamo di maniera disegnato con la selce e per le siepi curvilinee di lussureggianti rose canine. Il tutto sembra abbracciarti mentre quasi senza accorgercene ci siamo trovati all’interno del Santuario. Mancavo da tempo, ma credo di non aver mai provato tanta serenità come è accaduto oggi.
Un luogo in barlume attraversato da qualche canna di luce che fora le vetrate in alto a sud. Un silenzio in ogni angolo, animato da sussurri palpabili, ma invisibili di sospiri, di lagrime, di voti qui deposti come in un lavacro con la fede semplice ma ferma di chi è nella prova in cambio del dono inatteso di una nuova speranza che fa sorridere l’anima.
Così mentre avverto un invito non detto ad essere leggero con i passi, quasi vorrei fermare il pulsare del cuore e il respiro per meglio essere parte di questo segreto silenzio, saturo di segni che non vedo con gli occhi eppur mi ristorano. Con mio figlio, ma ognuno per conto proprio, abbiamo cercato d’istinto un angolo, quasi un riparo, un posto sicuro dove ci siamo seduti e senza parole ciascuno di noi ha avuto pensieri nuovi e, credo, di preghiera. Il luogo era vuoto di persone eppure stranamente non ho avvertito solitudine come invece talora mi accade tra la folla. Mi sono sentito accolto e molto a mio agio perché, forse perché un uomo che prega è un fatto naturale come è naturale la pioggia, la neve, la fioritura di un albero, generare vita.
Non siamo stati molto tempo anche se il silenzio era invitante a restare ancora. L’uscita ci ha accolto ancora con il sole caldo. Incerti e abbaccinati, senza esitazione abbiamo attraversato uno spiazzo deserto circondato da empori serrati senza visi e senza voci, non come un tempo. Più in là un cane bianco, randagio si trascina affannato e incerto guardandosi intorno ogni tanto. Poi, come per cammino usato, imbocchiamo un tratturo e di la vegetazione ci avvolge con i fusti bianchi degli eucalipti, con le roverelle che si distendono ad ombrello come per proteggerci, ma invano, dal sole, con i salici e i pioppi ancora inargentati, con gli steli verdi delle ginestre folte, con i ceppi di aspargina più verdi che mai, con il ticchettio del picchio rosso che picchia sui fusti secchi degli eucalipti.
Nascosto, lì, in fondo, nel verde più fitto come per ripararsi, occhieggiano rosse le bacche del pungitopo. Poi, ancora più in là, quasi nascosta, una radura con un tappeto di margherite con i petali bianchi dai bordi rossi. Ci siamo fermati, incerti se continuare la passeggiata lungo il tratturo che sembrava diventare un tunnel di foglie. All’improvviso un nitrito di cavallo. Bruscamente ci giriamo. Due cavalli, mantello nero e lucido, avanzano verso di noi. Li cavalcano due uomini della protezione civile in servizio di ispezione. Ci spostiamo al limite del tratturo. I cavalli avanzano: testa alta e superba, criniera maestosa come una corona, calpestio sordo e pesante degli zoccoli ferrati.
” Buongiorno”, ci salutano con voce neutra e noi: “Di quale maneggio sono questi due splendidi cavalli?” “Nessun maneggio, mi risponde uno dei due, sono due stalloni murgesi. State lontano, non vi avvicinate, questi cavalli non sono da turismo” Poi in silenzio hanno continuato inseguiti alle spalle dai nostri occhi sognanti che cavalcavano verso l’infinito.
Pasquale Bonnì