Viale Giotto, l’ultimo giorno di fraternità

by Enrico Ciccarelli

Cominciano a diventare molti, i nostri concittadini che conoscono viale Giotto solo per sentito dire o come elemento di toponomastica. Sono passati ventidue anni da quella terribile notte fra il 10 e l’11 novembre del 1999. Diciannove secondi, ricordano le registrazioni dei sismografi della Specola “Nigri”, che inghiottirono sotto le macerie 67 persone, con solo quattro sopravvissuti. Il più grande cedimento strutturale mai avvenuto in Italia e in Europa, secondo Wikipedia, che portò Foggia sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, con le immagini del civico 120 non più esistente irradiate nell’etere e via satellite anche dalla Cnn.

La memoria di quel momento terribile è rimasta raggrumata nelle pagine del libro-inchiesta di Davide Grittani Colpa di nessuno, nel romanzo di Emiliana Erriquez A metà del sonno, nel bellissimo monologo teatrale di Michele Di Virgilio Tonino a testa in giù. E nel ricordo sempre più fioco ed incerto di persone come me.

È un ricordo di lampi e di bozzetti, come è inevitabile: i fari dei riflettori a illuminare la voragine, il disperato utilizzo degli ecoscandagli a catturare un respiro, un gemito, un rantolo, la piccola lucina rossa della telecamera di Teleradioerre che Euclide Della Vista aveva voluto perennemente accesa a testimoniare di ogni attività. E poi la gente, i Vigili del Fuoco, i volontari a decine, l’amatissimo sindaco Agostinacchio che si aggirava come un leone in gabbia sul luogo dello scavo, e Massimo D’Alema, allora premier, che ringhiava more solito contro i giornalisti e cazziava a quel Dio biondo la malcapitata Rosa Russo Jervolino, ai tempi titolare del Viminale (ma poi l’algido e perfido D’Alema di facciata rivelò un cuore e una pietà grandissimi, che meritarono pienamente la cittadinanza onoraria datagli qualche anno dopo). E la bambina, la piccola Lauretta che oggi è una donna, estratta in pigiama dalle macerie, e la ferita sanguinosa dei giocattoli e dei pastelli che punteggiavano la rovina.

La signora Maria, che in una pausa della diretta-fiume parlò con me a telefono annunciandomi di voler mettere ‘mbitt ‘a criatura, a Laura rimasta orfana, per farla studiare, centomila lire al mese, togliendole alla sua pensione di seicentomila (se non avete mai incontrato la grandezza dei miseri, sappiate che vi segnerà il cuore per tutta la vita). E gli anziani inquilini che si trovavano in campagna e arrivarono tre giorni dopo completamente ignari dell’accaduto. E nell’aria quella polvere grigia, tanta, che riempiva l’aria e permaneva come una trista neve sul luogo del crollo.

E Giacinto Pinto, già allora cronista di forza portentosa, che si faceva in quattro per aiutare gli inviati del Corriere della Sera, di Repubblica, della Stampa. E Carlo Azeglio Ciampi davanti alle bare bianche dei bambini, in Fiera, impietrito come un nonno davanti ai nipotini, e sua moglie Franca in lacrime che cercava la sua mano.

Tutto questo andrà perduto nel tempo come lacrime nella pioggia, direbbe l’androide Rutger Hauer. Oggi, attutito il ricordo, sbiadito il dolore, posso dirvi che fu terribile, fu grande, sotto certi aspetti fu magnifico.

Non crediate alle narrazioni angelicate: la Foggia della vergogna non mancò di farsi sentire: ci fu chi sottrasse l’autoradio dalle auto parcheggiate sotto il palazzo crollato, ci fu chi speculò sui generi di conforto forniti ai soccorritori. Ma la risposta della città, anche il danaro versato sul conto corrente apposito, fu di inedita compattezza e sensibilità. La morte è venuta come un ladro, disse l’Arcivescovo D’Ambrosio, ma a quel furto di vite la città reagì con un balzo di fraternità di cui raramente avevo visto l’uguale, eternato dalle migliaia di persone che seguirono il percorso delle decine di bare dalla Fiera al Camposanto.

Non lo sapevamo, ma era l’ultima volta. Dopo di allora, dopo l’esemplare intervento dello Stato che risarcì tutte le vittime del crollo (e anche le famiglie che abitavano nel palazzo gemello abbattuto), la città smarrì progressivamente ogni senso di comunanza, ogni spirito identitario, riaffiorato periodicamente ed occasionalmente solo per le rade soddisfazioni calcistiche o per il ritorno di Zemàn o per il Gino Lisa. Ma l’idea di un destino comune crollò. Meno repentinamente del civico 120 di viale Giotto, meno sanguinosamente, ma con identica devastazione e senza speranza di risarcimento. Se la sofferenza non vi ha reso migliori l’avete sprecata, ha scritto qualcuno su Twitter.

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