Voto e periferie, il serbatoio dell’ira fa volare i populismi

by Antonella Soccio

Il voto del 26 maggio in Italia, sia alle Europee sia alle amministrative, che hanno interessato circa 3800 Comuni, certifica ancora una volta l’estrema mobilità dell’elettorato. Dal 2014 ad oggi prosegue inarrestabile la ricerca di un demiurgo, come ha scritto il professor Ernesto Galli della Loggia, che possa “sbloccare” il Paese dal suo immobilismo.

Prima il rottamatore Matteo Renzi, poi il M5S con oltre il 50% in alcune zone del Sud e ora la Lega, col suo Capitano Matteo Salvini. In principio fu Silvio Berlusconi, naturalmente, il federatore. C’è dietro questi voti l’attesa di un cambiamento, che tarda ad arrivare o che viene puntualmente tradito, nel perenne gattopardismo italiano.

Racconta molto bene le attuali fasi della politica italiana e il “serbatoio d’ira” dei ceti popolari l’ultimo saggio del sociologo Marco Revelli, intitolato “La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite”, edito da Einaudi.

Secondo Revelli la crisi delle tradizionali strutture oligarchiche della democrazia di partito novecentesca si colloca esattamente dentro la sindrome postmoderna di valori ovvero dentro il loro mutamento intergenerazionale. Si è passati dal regno dei bisogni materialistici a quello dei valori post materialistici. Dalla mobilitazione sociale del ’68 alla mobilitazione cognitiva di oggi. Ulrich Beck ha chiamato subpolitica o politica della seconda modernità quella politica che si colloca all’esterno e al di là delle istituzioni rappresentative del sistema, alludendo ad una società dal basso e ad una autorganizzazione che tende a mobilitare tutti i settori della società, non più con comportamenti collettivi, ma con azioni puntiformi, individuali, strutturate su gruppi ad hoc (le note moltitudini di Toni Negri) più che su stabili organizzazioni burocratiche come appunto i sindacati o i tradizionali apparati dei partiti. Sopravvivono a tali logiche forse solo le organizzazioni agricole, ancora compatte e capaci di spostare voti, perché radicate su una rappresentanza reale, organizzata.

Il sociologo Marco Revelli

Il quadro simbolo dell’inizio del 1900 è La città che sale di Umberto Boccioni, oggi si è all’opposto. Non è più la città sviluppata, il progresso a creare massa critica, ma la fibrillazione dei margini, l’ossimorica centralità delle periferie, che costituiscono un novum dell’universo mentale. Il punto centrale della grande trasformazione del secolo breve e del suo Dopoguerra, come scrive Revelli, era stata la città, la grande città, la metropoli e il suo paradigma fordista prima e il taylorismo territoriale poi. Oggi la “forma del vuoto” appare in tutto il suo dinamismo sociale nelle periferie marginali.

Revelli analizza i risultati di Trump, della Brexit, il successo del M5S e della Lega. Negli States, in Inghilterra come in Italia i populismi crescono dalla rabbia del basso, che si esprime nei piccoli centri, nelle province dimenticate e lontane dai flussi finanziari e nelle periferie lontane dai centri urbani gentrificati. Luoghi abitati dai forgotten, i lasciati indietro, gli invisibili, i deboli, gli ultimi, che scaricano la propria rabbia e frustrazione sulle élite e sui capri espiatori, rappresentati dagli stranieri.

Il grande buco della sinistra, senza più ideali e valori e senza una sua ideologia, viene riempito dal pupulismo e dalla voglia di destra. Le ombre nere, come le ha chiamate anche Angela Merkel.

“Viviamo con la testa nel mondo fantasmagorico del consumismo opulento- abbiamo aspettative da consumatori ricchi- ma poggiamo i piedi sulla linea di galleggiamento. Abbiamo toccato per pochi fuggevoli anni, o lustri, un benessere veloce, da centro commerciale, ma sappiamo che basta un nulla per riportarci sotto, nel mondo grigio e coriaceo della fatica quotidiana, dell’indebitamento, dell’insolvenza. È qui in questo campo di forza spaccato tra rappresentazione e realtà, che si condensa il rancore. Il sentimento, cioè, di un’attesa legittima tradita. Di una soddisfazione frustrata, incerta tra domanda di risarcimento e dichiarazione di fallimento”, scrive Revelli.

Questi elementi sono ben visibili nel voto del 26 maggio. Nel successo della Lega e nella tenuta del Pd in alcune aree del Paese.

In quelle città dove la spinta del progresso non s’è arrestata e dove il vento del futuro e dell’economia della conoscenza spira più forte, il Pd, ormai partito delle classi ad alto reddito o da coloro che non hanno problemi ad arrivare alla fine del mese, vince ed è primo partito. Milano, Bergamo dove Giorgio Gori ha vinto al primo turno, così come Dario Nardella a Firenze. Bari forse rappresenta un’eccezione, una città in cui il centrosinistra ha saputo tenere insieme ansia di rinnovamento e futuro. Ma ce ne occuperemo nei prossimi giorni.

L’impoverimento e non la povertà crea rancore. Anche a Foggia, il candidato del centrosinistra, Pippo Cavaliere, ingegnere e miglior rappresentante della “società dei primi”, gli aristoi, ha perso del tutto la sfida nei quartieri popolari dove è stato più che doppiato dal suo competitor di centrodestra Franco Landella, trainato anche dalla Lega.

Non è facile spezzare la spirare che dall’emulazione competitiva degenera in invidia sociale e rancore: quando una parte consistente della popolazione smette di considerare la propria aspirazione a una vita degna come un diritto pubblicamente garantito finisce inevitabilmente per mutare il gioco sociale in uno scambio iniquo tra chi è costretto a chiedere tutoraggio e chi in cambio, reclamerà fedeltà e assoggettamento al capo.

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