Il dramma della Passio Christi nella Puglia dei riti collettivi

by Eugenio D'Amico

In terra di Puglia forse più che altrove il dramma della Passio Christi, viene vissuto ancora oggi in riti collettivi che rievocano, spesso con barocca teatralità di gusto spagnoleggiante, il senso della morte e della macerazione della carne, il dolore della colpa ed il desiderio di espiazione che caratterizzarono il secolo della Controriforma in cui essi nacquero sostituendosi alle Passioni viventi che dal Medioevo in poi rievocavano i momenti salienti della crocifissione, passione e morte di Gesù.

Nelle vie, in cui spesso è sospesa ogni illuminazione ed il buio è interrotto solo dai ceri dei fedeli e dai lumi posti alle finestre, i riti vivono nella partecipazione corale di quanti seguono il lento incedere delle processioni, scandito dal  suono aspro della troccola, un’asse di legno a cui sono inchiodate delle maniglie, che negli intervalli delle solenni e strazianti marce funebri suonate dalle Bande cittadine chiama le soste e regola il passo dei Confratelli, incappucciati e vestiti dei “sacchi” della penitenza.

Il cuore delle processioni sono i Misteri, gruppi scultorei, di solito in legno o cartapesta, che rappresentano con forza e realismo i vari momenti del supplizio, dalla cattura di Gesù, alla Croce del Golgota, dalla Flagellazione alla Deposizione del Cristo morto tra le braccia della Madre, e la Statua della Mater Dolorosa che piange il Figlio. Nelle processioni del Venerdì Santo avanzano lentamente talvolta con un’andatura dondolante come il dolce ondeggiare di una culla (la statua del Cristo Deposto di Noicattaro è chiamata naka, che significa culla nel dialetto locale, perché non casualmente il giaciglio su cui giace il Cristo, richiama la forma di una culla), per raccontare la passione e morte di Cristo e il dolore della Vergine Madre, che la solenne e silenziosa presenza degli incappucciati delle Confraternite esprime in antiche forme di spiritualità e di fede che a prima vista appaiono anacronistiche e talvolta esasperate, ma che invece sono vive e vitali ed in grado di coinvolgere  per la loro sincerità non solo i fedeli, ma anche i semplici spettatori.

Le Marce Funebri e “Il lamento di Maria” a Molfetta

La colonna sonora delle processioni, triste e solenne, è affidata ai suoni cupi delle percussioni ed agli squilli dei fiati delle bande locali che si alternano per eseguire con grande maestria le marce funebri che si rifanno alla grande tradizione di musica per bande del meridione d’Italia e della Puglia ma in cui non mancano mai né lo straziante Stabat Mater di Rossini, né il verdiano Simon Boccanegra, con i suoi accenti cupi e disperati.

In particolare Molfetta, patria di valenti compositori di musica per bande, si distingue per la validità delle bande musicali impiegate e per la scelta del repertorio, codificato per tradizione in base al luogo ed al momento della processione. Sono esecuzioni bellissime e partecipate il cui fascino però cede di fronte alla sottile suggestione del “Lamento di Maria”, di autore ignoto, struggente melodia di sapore orientale eseguita da un complessino di soli quattro strumenti, tamburo, tromba, flauto e grancassa, che apre tutte le processioni legate alla Settimana Santa. Il “ti-tee”, come i molfettesi chiamano la melodia con un’onomatopea che ne richiama l’assolo di tromba, è particolarmente struggente quando precede la processione dell’Addolorata, bellissima statua della Madonna che, vestita di neri broccati, nel venerdì che precede la Domenica delle Palme percorre le vie della città antica annunziando con il pianto della Madre l’imminente sacrificio del Figlio.

I Perdoni di Taranto

A Taranto i rituali delle Confraternite hanno reso così suggestivi i riti della Settimana Santa da farli diventare, loro malgrado, un evento turistico che richiama folle di spettatori. Il giovedì pomeriggio ad intervalli regolari dalla chiesa madre escono a coppie i “Perdoni” che iniziano il loro lento peregrinare per le vie della città. Nel tradizionale saio bianco con il cappello nero bordato da un nastro azzurro cupo, guanti bianchi e lungo bordone da pellegrino, procedono scalzi, spalla contro spalla, nascosti sotto un cappuccio bianco con due piccoli fori all’altezza degli occhi. Due scapolari con le scritte “Decor” e “Carmeli”, ricamate in azzurro li identificano come appartenenti alla Confraternita del Monte Carmelo. Il loro lentissimo procedere, spostando il peso del corpo da un piede all’altro con un caratteristico dondolio che i tarantini chiamano “nazzecata”, li porta di chiesa in chiesa in un muto pellegrinaggio che dura fino a mezzanotte, per riprendere il mattino successivo dalle sei fino alle undici. 

Alla mezzanotte tra il giovedì ed il venerdì santo dalla Chiesa di San Domenico Maggiore escono i Confratelli della Confraternita di Maria Santissima Addolorata, anch’essi incappucciati che accompagnano in processione, con lo stesso passo lentissimo, la Statua vestita a lutto della Madonna che, secondo la tradizione, vaga alla ricerca del Cristo Morto. La processione è aperta dal troccolante che con il suono del suo strumento regola il passo dei confratelli, dalle “Pesàre”, finte pietre che simboleggiano la lapidazione sul Calvario o, forse, il peso dei peccati dell’uomo, portate al collo da due bambini, anch’essi con l’abito della Confraternita, ma con il cappuccio arrotolato a mostrare il volto, e dalla Croce dei Misteri, nera e con i simboli della passione, portata da un confratello, l’unico a volto scoperto. Seguono le “poste” dei Confratelli, separate, ogni quattro poste, dai Crociferi, tre confratelli scalzi che procedono curvi portando sulla spalla una croce nera. La processione si conclude alle quattordici del venerdì con il rientro nella Chiesa di San Domenico. Un’ora dopo dalla Chiesa del Carmine parte la Processione dei Misteri. Tra una statua e l’altra le poste dei perdoni, ventiquattro in tutto, procedono con il loro lentissimo passo. Il troccolante che apre la processione è l’unico dei “perdoni” ad avere il cappello calzato. A lui toccherà all’alba del mattino del giorno dopo battere con il suo bordone sulla porta della chiesa i tre colpi rituali che la spalancheranno per far rientrare i “Misteri”. E’ il momento conclusivo del rito, e condotto allo stesso lento ritmo che ha caratterizzato tutta la processione, durerà ancora due ore.

I “Pappamusci” di Francavilla Fontana e i Crociferi di  Noicattaro

I cruciferi rappresentano un elemento quasi sempre presente nelle processioni. Camminano curvi, piegati sotto il peso di grandi croci nere che trascinano in segno di pentimento ed espiazione. A Francavilla Fontana li chiamano “Pappamusci” e si sostiene che il termine derivi dal greco e significhi “prete nero” o “prete lento, silenzioso”. Già dal giovedì Santo a coppie di due escono dalla Chiesa del Carmine a piedi scalzi e il volto nascosto dal cappuccio. Il cappello a larghe falde, i piedi nudi ed il bordone evocano il pellegrinaggio verso i Luoghi Santi che essi ripetono  percorrendo, a passo lento e nel più assoluto silenzio, le vie del paese e dandosi il cambio per pregare in ogni chiesa. Quando le poste, cioè le coppie di pappamusci, si incontrano per strada o si danno il cambio nelle preghiere in una chiesa, si pongono l’una di fronte all’altra, battono il bordone per terra con un colpo secco e incrociano con forza le braccia sul petto in segno di saluto. Rientrano nella chiesa al tramonto del venerdì dopo una notte e un giorno di cammino e di preghiera, per prepararsi al rito finale di espiazione della sera del Venerdì Santo quando per le vie cittadine si snoda la suggestiva processione dei Misteri. I “Pappamusci culli Trai” come sono detti nel dialetto locale i cruciferi, giungono anche da lontano, spesso ripetendo, in rigoroso anonimato, il rito anno dopo anno e per partecipare alla processione si iscrivono nel registro della Confraternita di Maria Santissima del Carmine. Seguono il “mistero” raffigurante la Caduta di Gesù sotto la Croce, che qui chiamano “La Cascata”, piegati sotto una lunga e pesante croce di legno grezzo, la “Trai”, tanto più lunga e pesante quanto più è grave il peccato che si intende espiare o quanto più grande è la grazia che si vuole chiedere. Nel silenzio irreale risuona, ingrandito dai vicoli della città vecchia, il crepitio lugubre e tragico della troccola che scandisce i tempi del lento scorrere della processione; ed il tonfo ritmico dell’estremità inferiore delle croci trascinate sulle larghe chianche delle strade sottolinea la fatica e la sofferenza dei penitenti curvi e piagati sotto il legno sempre più pesante, fino alla fine del percorso quando, al rientro nella Chiesa il rogo del registro che cancella i loro nomi, li libera simbolicamente dal peccato di cui hanno voluto portare il peso.

A Noicattaro, alle porte di Bari il doloroso e faticoso pellegrinaggio di espiazione diventa ancora più cruento. I cruciferi il giovedì Santo escono dalla Chiesa della Madonna della Lama illuminati dai bagliori del fuoco del cippo allestito sul sagrato che arderà tutta la notte ed il giorno dopo ancora, inconscio richiamo agli antichi riti del fuoco che fugavano le tenebre dell’inverno e illuminando la notte scacciavano il male  e annunciavano  la rinascita della natura. Essi giunti davanti ad una chiesa poggiano al muro la loro croce e camminando in ginocchio raggiungono il “Sepolcro” davanti al quale si fermano per pregare, accompagnando la preghiera con le percosse che si infliggono con le pesanti catene che durante il loro faticoso andare imprigionano le loro caviglie.

Le “Processioni dell’Incontro”

Le “processioni dell’incontro”, caratteristiche dei riti della settimana santa pugliese, narrano il momento particolarmente drammatico dell’incontro tra la Vergine Addolorata ed il Figlio condotto al Calvario rappresentati da due diverse processioni, una che segue il Cristo e l’altra la statua dell’Addolorata, che si cercano per le vie fino all’incontro che avviene sul sagrato della chiesa matrice poco prima del rientro delle processioni. Tra esse è emotivamente coinvolgente e particolarmente commovente la processione che si svolge a San Severo alle prime luci dell’alba del Venerdì Santo. Due processioni, quella dell’Arciconfraternita dell’Orazione e Morte che segue la Madonna Addolorata e l’altra, quella dell’Arciconfraternita del Rosario che porta il Cristo Flagellato, percorrono nella notte le vie cittadine cercandosi e sfiorandosi senza mai incontrarsi, al suono solenne e straziante delle Marce funebri, mentre una terza processione, quella dell’Arciconfraternita del Soccorso, scorta un confratello che reca una grande croce nera fino alla piazza dell’incontro che avviene sul far dell’alba. Trascinate dai portatori le due statue si corrono incontro come per abbracciarsi, , ma proprio mentre l’Addolorata e il Flagellato giungono l’una di fronte all’altro, tra le due statue improvvisamente si frappone la grande croce nera della terza processione, segno del compiersi del sacrificio, che issata dal portatore scalzo impedisce con un teatrale e drammatico colpo di scena l’abbraccio della Madre col Figlio.

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