Il Gargano, un’Italia in compendio

by redazione

Siamo, come vedremo, ancora nel Gargano: un paese piccolo e immenso che non è possibile conoscere e comprendere né in un giorno, né in una settimana, anche ora che si presta ad essere percorso in tutti i versi, non con la quattroruote primitiva di Carlo Piacci, il quale, com’è noto, partito da Milano alla scoperta di paesi e monumenti più o meno celebri del Sud, finì per non scoprire gli uni e non capire gli altri, ma a bordo di una di quelle possenti cilindrate con cui i turisti ben ispirati di ogni parte d’Italia e d’Oltralpe vi arrivano ormai quotidianamente, desiderosi di trascorrere qualche ora di effettiva beatitudine fra Bellariva, Manacore, Foresta Umbra, Pugnochiuso e adesso anche Maletta (l’antica Malecta in quel di Sannicandro), detta erroneamente Mileto.

«Un’Italia in compendio» lo chiamò Antonio Baldini, quando molti anni or sono si recò nel Gargano. E qui potremmo fermarci, lasciando per sempre nel dimenticatoio l’iperbolica lode, che pure da ragazzi ci mandava in visibilio, di Ferdinando Gregorovius, secondo cui la faccia del Promontorio che sembra cadere quasi a picco sul Tavoliere poteva essere assomigliata, nell’ora del tramonto, ad «una parete fiammeggiante posta dagli Dei a custodia di un Paradiso ». Lasciamo a lui il Paradiso nascosto, e a noi, un po’ alla volta, col permesso degli Dei, quello visibile a occhio nudo.

Il carattere precipuo della personalità del Gargano è certamente costituito dalla sua conformazione e dal suo paesaggio: l’ossatura titanica e il mirabile volto. Ma l’anima della gente rivela qui, negli usi, nelle espressioni, nei costumi, note ed accenti altrettanto inconfondibili, specie in certe zone ancora favorevoli, nonostante l’inevitabile livellamento del programma civile, a quella che gli scienziati chiamano la «cristallizzazione del tipo etnico».

Ecco, come lo vede ancora la nostra memoria, il forte pastore, vestito di pelli, alto sul vertice della montagna, nell’alto di scagliare la fionda infallibile, aggraziato ed agile come il Discobolo di Mirone; eccolo, tornato in paese pel dì di festa, vestire la sua pittoresca foggia di velluto nero o marrone, con i gambali stretti al ginocchio dal cordoncino di seta a fiocchi e strappare alla chitarra le note accurate sotto la finestra della donna che domani, dondolandosi sull’altalena, gli farà forse il dono di una parola d’amore. O altalena, festa irresistibile dei corpi sospesi nell’aria; molle gara di movenze e di canti, tra le case e l’azzurro! La fune cigola sotto la trave maestra; l’assicella ondeggia, attinge l’arco della porta, rientra, riprende lo slancio, ritorna all’aperto, va e viene, regolata dal gioco di una forza naturale, ma ignota, simile al respiro delle giovinette che vi seggono sopra affiancate.

Il capo lievemente reclino sulla spalla, esse si abbandonano. Forse le ali spuntano alle loro spalle: e credono di volare; il paesaggio s’innalza e s’abbassa ai loro occhi; le montagne, i tetti, le nuvole si approssimano; l’ebbrezza le cinge, si afferrano alle funi ed aprono le belle gole palpitanti al canto: « Oréeeee … Ciarlino pure, non m’importa niente: sopra le male lingue acqua bollente! ».

I versetti, cantati uno per volta, prima dalla giovinetta di destra, poi da quella di sinistra, restano per un momento sospesi in aria, mentre l’assicella rientra nel vano per riprendere lo slancio verso l’azzurro. Dieci, venti, cento coppie, le bianche braccia avvinte alle funi, rispondono da tutte le strade del paese e la matassa dei canti le avvolge come un’arnia nello sciame d’oro, mentre i giovani fanno capannello parlottando poco lontano. E questa è la festa tipicamente sannicandrese degli « intrantala », la festa della giovinezza, la festa della primavera, che va da Pasqua di Resurrezione a Pasqua delle Rose. A quale di queste donne bellissime rassomigliava quella Giacoma Beccarini che i Turchi catturarono nel Sacco di Manfredonia del 1620, per farne a Costantinopoli la loro Sultana?

Ed ecco il marinaio, il gimbolo del berretto pendente a destra o a sinistra, secondo che spiri scirocco o maestrale, intonare la laude rituale per il varo della sua nuova paranza. Già proprietario, nella maggior parte dei casi, di un « trabaccolo » o di un « pinco», egli è di quella stessa razza che dischiuse all’Europa le vie dell’Oriente, che conquistò in Mira il corpo di San Nicola, che seguì con Boemondo i Crociati a Gerusalemme. I fratelli Paliano e « nonno Aristodemo » non erano suoi consanguinei? « Stride la vela, cigola la stia, ora pro nobis, Vergine Maria ».

Quale intimità di vita ed immediatezza di espressione in questi canti! Le « ottave» di Peschici, i « sonetti » di Sannicandro, i « cori » di Vico, gli « strusci » di Montesantangelo, hanno accenti ed intonazioni tutte indigene,  a « la stesa » o « a la capuana», con accompagnamento di chitarra o di « cupa-cupa » (uno strumento primitivo che riproduce il rombo del nicchio marino). Nemici dell’ozio, i contadini e le contadine garganiche allietano di canti il loro lavoro quotidiano, a seconda della sua natura e della sua durata, come quei vecchi mulattieri di Vico e di Peschici che crearono per le loro « strufette » un movimento ritmico, ancora in uso, adatto al passo delle bestie in cammino.

Caratteristico è a Sannicandro un componimento carnascialesco, «lu ditt», che sta tra le fabulae atellanae, i maggi reggiani e le farse spirituali, ma che da esse si differenzia per spiriti e forme di schietta impronta locale. In questa bizzarra azione scenica la fantasia del popolo si scapriccia, mescolando re e pezzenti, angeli e demoni, con una passione mistica, un senso del grottesco, un vigore plastico, che solo possono paragonarsi a certe decorazioni di portali e di absidi, uscite dal polso rozzo e possente dei nostri primitivi scultori, di cui in passato vollero probabilmente essere la volgarizzazione poetica.

Nei riti sacri della vita e della morte, tra le mura benedette della casa, lo spirito sognante del popolo ripiega le ali e si affina. L’uomo che in antico elevava i suoi templi ai numi tutelari del fuoco e dava ad una città il nome di Vesta, è quello stesso che oggi, sotto il tetto colpito dal lutto, spegne la fiamma del focolare. A Rodi, la donna scampata da un male mortale, mette il segno delle sue mani sul primo pane fatto in casa e lo distribuisce ai poveri. A Sannicandro, fino a ieri, la fanciulla che andava a nozze, inginocchiandosi sull’alta-re, pone un lembo della sua veste sotto le ginocchia dello sposo, quasi a significargli la sua soggezione e la sua fedeltà. E ancora oasi, all’uscita dal tempio, la coppia è affrontata da alcune, donne che ne sbarrano il passo con lacci d’oro e con nastri infiorati, come per augurarle d’imbattersi nella vita solo in oro e in fiori.

E d’oro si copre nei giorni di festa la giovane sposa, con una copia inverosimile di pendoli, di orecchini, di collane, di vaghi d’ogni forma, di fiori policromi ella ammanta il panno, curva sul sottile incanto del suo telaio, mentre lo sposo, nella solitudine del¬la campagna, intaglia per lei cucchiai. mestoli e scodelle, nacchere per la danza e fusi per la filatura, con felici motivi decorativi, in cui è facile ravvisare la sua parentela coi fecondi marmorari del nostro aureo periodo monumentale.

Ma dove l’anima della gente si esalta veramente è nella leggenda a fondo religioso e morale. Su quale misfatto la Vergine lignea di Siponto sbarrò i suoi grandi occhi magnetici? E quale rapporto ha la leggenda con l’epistola indirizzata da Papa Gregorio I a Pantaleo notaio nel 593? Con quale significato il popolo identifica il nome del Promontorio con quello del pastore che, seguendo la traccia di un suo toro smarrito, arriva alla spelonca terribile, sacra ancora alla deità pagane, e vi sveglia il culto dell’Arcangelo?

Fosca o ridente, la fantasia del popolo si trasferisce nei fatti e nei fenomeni naturali e li colora dei suoi sentimenti. Non è dunque solo un gioco dell’immaginazione. Nello strepito dei marosi che si incavernano sotto gli scogli di Peschici essa riconosce le ferree ritorte che la gelosia delle Sirene cinse ai piedi di una fanciulla bellissima, la quale gode tuttavia della pietà del Signore, ed ogni cento anni è messa per un giorno in libertà, affinché possa correre incontro al giovinetto che seguita ad amarla, simbolo del ricordo semprevivo; le onde che nel giorno di Santa Maria al Mare si aprono fra Rodi e Tremiti, lasciano passare soltanto le donne senza peccato; il lago di Varano, sollevandosi a inabissare la città corrotta, fa che emerga dalla tempesta la casetta della pia Nunzia, mentre trascina il signorotto crudele, dannandolo a muggire in eterno sotto le acque. Tutti odono in primavera e in autunno quel grido pauroso, detto «vocintauro», dovuto probabilmente allo scrosciare delle acque nell’inghiottitoio delle sponde o all’urlo del tarabuso.

La favola, fiore della storia, sornuota, convertita in canto, al flusso degli avvenimenti e li rinverdisce di continuo, col loro bene e il loro male, a perpetuo ammaestramento delle generazioni che verranno.

Alfredo Petrucci

Alfredo Petrucci (San Nicandro Garganico12 marzo 1888 – Roma15 giugno 1969) è stato uno storico dell’arte, narratore e poeta italiano, oltre che incisore e disegnatore.

Biografia

Petrucci si laureò a Napoli in Lettere e Filosofia, entrando nella carriera delle Antichità e Belle Arti. Nel 1912 lavorò ad Ancona, poi a Siena e a Bari; nel 1922 si trasferì a Roma, dove rimase fino alla morte. Nel 1923 entrò come primo segretario nel Gabinetto Nazionale delle Stampe, di cui sarebbe diventato direttore nel 1940. Nel 1924 organizzò nella capitale, a Palazzo Salviati, una mostra di artisti pugliesi, che fece conoscere, tra gli altri, lo stesso Petrucci, il quale vi espose le sue due più note acquefortiBeethoven e Leopardi. Nel 1954 venne collocato a riposo con la qualifica di conservatore onorario dello stesso Gabinetto Nazionale delle Stampe. È scomparso nel 1969 a 81 anni.

Opere

Petrucci ha pubblicato molti libri e saggi. Particolarmente importanti sono i volumi dedicati all’incisione italiana, e cioè Il Quattrocento (1945), Il Cinquecento (1964) e L’Ottocento (1941). Ad essi va aggiunto almeno Gli incisori italiani all’estero (1958).

Fondamentale è il volume Cattedrali di Puglia, più volte ristampato, dal 1960 in poi, nel quale Petrucci, ponendo l’accento sugli elementi autoctoni della regione, sgombra il campo da errori e pregiudizi, mentre postumo è apparso Pernix Apulia (1971).

In ambito letterario, Petrucci ha dato alle stampe romanzi (La luce che non si spegne1921, e Le parole per tutte le ore1930), raccolte di novelle (La povera vita1914Romanzo di una primavera1945) e sillogi di poesia (Esitazione della sera1951). Non mancano dei testi destinati ai giovani, come Fra terra e cielo e Arcobaleno, editi dalla SEI di Torino, rispettivamente, nel 1953 e nel 1955.

Petrucci ha inoltre pubblicato saggi sulle principali riviste, come la “Nuova Antologia”, ha collaborato al Dizionario biografico degli Italiani della Treccani e al quotidiano romano “Il Messaggero”.

Come artista, ha realizzato centinaia di acqueforti e puntesecche; le sue opere si trovano in numerosi musei, in Italia come all’estero.

Al centro della sua produzione c’è un vivo amore per la bellezza, espresso in vario modo, mentre tra i temi spicca la nostalgia per la sua terra natale, rivista attraverso il filtro della memoria. La raccolta di novelle La povera vita, di recente ristampata, è in assoluto la prima ambientata nel Gargano.

Porta il suo nome la biblioteca comunale di San Nicandro Garganico. Nella Biblioteca Provinciale di Foggia si conserva un ricco fondo documentario, contenente tra l’altro lettere di importanti personaggi del Novecento italiano.

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