Norman Douglas alla scoperta di Lucera saracena

by Teresa Rauzino

Lo scrittore inglese pubblicò in “Old Calabria” il reportage di un viaggio in Capitanata agli inizi del Novecento.

Innamorato del Sud Italia, il raffinato ed eccentrico scrittore inglese Norman Douglas (Tilquihillie 1868-Capri 1952), prima di fissare la sua dimora nell’isola di Capri, aveva percorso in lungo e largo quelle che erano state le regioni della Magna Grecia, dedicando loro alcuni libri famosi.

Old Calabria”, resoconto di un viaggio di Douglas in Puglia, Basilicata e Calabria avvenuto tra il 1907 e il 1911, a giudizio di molti critici,  oltre ad essere un longseller, è il miglior libro che uno straniero abbia scritto sul nostro Sud. Fu tradotto in molte lingue, dopo la prima pubblicazione del 1915 a cura della casa editrice londinese Secker.

Douglas sollecita i lettori a visitare al più presto i luoghi descritti, ormai a rischio di estinzione: «Chi abbia voglia di godere la bellezza di questi paesaggi selvosi, prima che scompaiano dalla faccia della terra, dovrà affrettarsi». Il suo interesse è rivolto soprattutto al paesaggio, esotico e lussureggiante, e agli abitanti, connotati da un vitalismo che contrasta con la “patologica mestizia degli uomini del Nord Europa”. Nonostante le dotte citazioni e i riferimenti classici ed archeologici, nel testo sono frequenti le considerazioni sulle condizioni socio-economiche del Sud dei primi anni del Novecento.

A Norman Douglas riesce difficile sintetizzare le caratteristiche della città di Lucera (FG), prima tappa del suo viaggio nel profondo Sud: case basse, ma non indecorose; strade in ordine e pulite; luce elettrica e qualche mediocre alloggio per i viaggiatori; un’infinità di barbieri e di farmacisti. Nulla di notevole. Tuttavia un “genius loci” c’è: «Forse esso risiede in un certo sentimento di riservatezza, che qui non abbandona mai nessuno».

La “passeggiata” preferita di Douglas è quella che porta sul lato della valle dove il solenne, vecchio Castello svevo si adagia su una collina di smeraldo. Esso «non ha un aspetto minaccioso; riposa solido, con un’aria di dominio tranquilla e sicura». Molto tempo prima che Federico II ne facesse il centro dei suoi domini meridionali, quell’altura doveva essere considerata la chiave delle Puglie. All’esterno di quelle mura turrite di oltre un chilometro e mezzo, che un tempo ospitarono fino a 600mila persone, c’è uno spazio pianeggiante.

Poichè questo Castello è un «monumento nazionale», c’è un custode, ma è un vecchietto ignorante, che fornisce informazioni inattendibili con l’aria circospetta di chi stia vendendo segreti di Stato. Qualche reperto archeologico è conservato nel piccolo museo municipale: «Qui c’è anche una notevole collezione di monete, alcune selci preistoriche del Gargano, qualche curiosa statuetta bronzea primitiva e i busti mutilati di celebrità romane, scolpiti nel marmo o nel recalcitrante calcare locale».

Ma ad attirare l’attenzione di Douglas è il calco in gesso di una pietra tombale musulmana trovata nei pressi di Foggia. Il testo, in antitesi con i retorici epitaffi del Cristianesimo coevo, è ispirato da un senso di nobile accettazione della morte: «Nel nome di Allah, il Misericordioso, il Compassionevole. Possa Dio mostrare bontà a Maometto e alla sua stirpe sostenendoli con i suoi favori! Questa è la tomba del capitano Jacchia Albosasso. Dio sia misericordioso con lui. È spirato verso il mezzodì di sabato nei cinque giorni del mese Moharram dell’anno 745 (5 aprile 1348). Così si mostri Allah misericordioso con colui che legge».

Non è proprio possibile trovarsi a Lucera senza pensare alla colonia di ventimila Saraceni, la scorta di Federico e di suo figlio, che dimorò qui per quasi ottant’anni e protesse Manfredi nell’ora del pericolo. E Douglas ricorda un aneddoto del 1252, tramandato dal cronista Spinelli, che dimostra l’infatuazione di Manfredi per questi “leali stranieri”.

Douglas si sente talmente pervaso dallo spirito di «Lucera dei Pagani» da sentirsi incline a far eco all’«Addio nume semitico!» del Carducci. Si rammarica che il ricordo dei Saraceni sia stato completamente spazzato via da queste terre. L’unica vestigia che ricordi quel glorioso passato è un giornale locale che costa poche lire, chiamato “Il Saraceno”, un « pagano» assai innocuo a giudicare dalla copia acquistata da Douglas «in un momento di avventatezza».

A Lucera si vedono tante chiese cupe, «tutte eguali nella loro architettonica elaborazione di misticismo e di ostinazione nell’errore». Douglas non dimentica «la turba strisciante che le ha innalzate, con la frusta sulla schiena, o quello strano genere di umanità , che da allora è cresciuto alla loro ombra». Egli preferisce tornare al sole e alle stelle, alla sua “passeggiata” intorno alle mura del Castello, anche se versa in uno stato di degrado: «L’interno è del tutto abbandonato, non vi è dubbio; hanno costruito metà della città di Lucera con le sue pietre, così come Federico le faceva estrarre dalla primitiva cittadella romana sottostante; ma quanto meno la desolazione è armonica. Non vi sono sentieri cintati di filo spinato tra le rovine, non vi sono chioschi di bibite e volgari ricostruzioni di ponti levatoi e regolamenti di polizia urbana a ogni angolo; non vi sono donne vistose intente a scarabocchiare cartoline illustrate da spedire agli amici. Vi è solo pace».

Queste sono le delizie di Lucera: osservare dalle vecchie mura del Castello le ombre aggraziate delle nuvole che macchiano la pianura. Quanto a quelli che riescono a ricostruire le glorie scomparse di un luogo simile … beati loro! Douglas trova questo compito arduo. Tuttavia, riflettendo bene, Federico II non è una figura sfocata, si staglia maestoso, è stato un precursore dei tempi: «Come si capisce bene quella brama d’Oriente, oggidì; quanto erano moderni, lui e suo figlio, il “Sultano di Lucera”; e i loro amici e consiglieri che crearono questo giardino di cultura esotica! Era forse un ultimo sprazzo di quel mondo luminoso ormai tramontato, o una pallida striscia dell’alba in arrivo?».

Ora, tra quelle mura dove un tempo echeggiavano i canti dei menestrelli, le dolci risa delle donne dell’harem, le dissertazioni dei dotti, artisti e filosofi, e il clamore delle armi, si scorge soltanto “un lago verde, un campo d’erba ondeggiante”. 

Non importa. Basta ricordare l’atmosfera del tempo che fu. Come quando il cognato di Federico, tornando dalla Terra Santa, si fermava alla corte lucerina – lo attesta il cronista medievale Matthew Paris – per ammirare «duas puellas Saracenicas formosas, quae in pavimenti planitie binis globis insisterent, volutisque globis huc illucque ferrentur canentes, cymbala manibus collidentes, corporaque secundum modulos motantes atque flectentes (due belle fanciulle saracene, che sul piano del selciato si reggevano in piedi su due sfere, cantando mentre facevano evoluzioni acrobatiche, battendo con le mani sui cembali, flettendo e muovendo i corpi a seconda del ritmo)».

«Ebbene, – sospira Norman Douglas – avrei voluto esserci anch’io!».

Teresa Maria Rauzino

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