20 anni dal crollo di viale Giotto

by Emiliana Erriquez

L’11 novembre 1999 verso le prime ore del mattino a Foggia uno stabile di 26 appartamenti crollò accasciandosi su se stesso. 19 secondi per spazzare via le vita di 67 persone, 61 morti e 6 dispersi. Le cause del crollo furono individuate nella qualità scadente dei materiali utilizzati 30 anni prima per la costruzione dell’edificio, calcestruzzo misto a spazzatura.

Molti i libri che sono stati scritti in questi venti anni per riprendere le fila dell’inchiesta o raccontare le storie delle vittime. Noi di bonculture vi proponiamo un estratto dal bellissimo libro di Emiliana Erriquez, “A metà del sonno”:

Un tonfo fragoroso, come un lungo lamento che straziava il cuore. Lì, in periferia, ai margini di una città che pensava, illudendosi, di aver subìto già troppo. Una città umiliata dalla guerra, ferita mortalmente e mortalmente dimezzata, che riteneva di aver già scontato il numero di vittime innocenti con le migliaia di persone disintegrate dai bombardamenti.

E poi quella notte, quel crollo inaspettato, feroce, che si era portato via ogni cosa lungo la strada. Momenti vissuti e attimi di futuro rimasti nei sogni. Simile a un cancro che aumentava le sue cellule cancerose, le ammucchiava, una sull’altra fino a quando non diventavano un’unica massa opprimente e nefanda, così le macerie che ora giacevano in terra, accumulate senza ragione. Ingombravano la via, si intravedevano attraverso la polvere, occupando quel posto che prima era vita e ora solo morte.

Il palazzo giaceva indifeso, accartocciato su se stesso. La vita sembrava al riparo dalle brutalità, dalle intemperie, fino a diciannove secondi prima. Gli sforzi di un’esistenza dignitosa non erano bastati, e quei granelli di polvere erano ormai frammenti umani forse destinati all’oblio.

Dopo quel rumore assurdo, inspiegabile, una nebbia fitta avvolse tutta la strada. Urla disumane lacerarono il cuore. Un odore irritante sotto le narici. Gli occhi rossi di pianto, di dolore. E in sottofondo un silenzio sbigottito. Quel collasso strutturale si era portato via anche il tempo per sperare. Restituiva solo sgomento, sconcerto. Si era trascinato i respiri di decine di persone che, vinte dal sonno, non avevano fatto in tempo ad aggrapparsi alla vita. Pochi secondi, funesti, forse troppo lunghi per chi credeva di aver visto tutto e invece restava lì, confuso, inerme ormai, l’espressione sbattuta e un senso di ineluttabilità appiccicato addosso.

Erano le tre e dodici del mattino, un’ora in cui i sogni di alcuni erano incompleti, affidati al futuro. Quelli della città interrotti dalla vibrazione che il palazzo aveva prodotto inghiottendo sé stesso, dal rumore di vite spezzate, dal suono agitato delle ambulanze, dei vigili del fuoco accorsi sul posto. Il cemento indugiava nell’aria, quasi indifferente di fronte al proprio disintegrarsi.

I primi soccorsi non riuscirono a localizzare il luogo esatto della sciagura, perché la nebbia avvolgeva ogni cosa, persino i loro cuori quando osarono avvicinarsi e pian piano si resero conto di quanto fosse davvero tragico ciò che era accaduto. E quanto fosse vacua la speranza di fronte a quelle immagini. Non restava, a chi era sopravvissuto, che aggrapparsi alla propria vita con ferocia e pregare, altrettanto ferocemente, che i propri cari si fossero salvati, che non ci fosse nessun conoscente tra le vittime. Ma la sensazione comune a quel formicaio di persone fu che ce ne sarebbero state molte, troppe.

Per giorni e giorni, la città avrebbe vissuto in uno stordimento totale.

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