“È una paura drammatica ma il senso del dovere, rispetto al mio mestiere è fondamentale.” La lezione di Paolo Borrometi, sotto scorta dal 2014

by Michela Conoscitore

Un’oasi di pace, lontana da Palermo quindi distante dai clamori del capoluogo: per molti clan mafiosi, Ragusa era questo, iniziarono a investire in molti in provincia, tra i tanti i Bontate. Inoltre, divenne il buen retiro di Bernardo Provenzano dove trascorse parte della latitanza. Questo, e molto altro, emerge dal libro Un morto ogni tanto (Solferino, pp. 202, 13,60€) del giornalista e scrittore siciliano Paolo Borrometi.

Sotto scorta dal 2014, ideatore del sito LaSpia.it e vicedirettore dell’AGI, Borrometi è tra quei giornalisti italiani in costante pericolo di vita per via delle inchieste scottanti sulla mafia in Sicilia e sulla criminalità organizzata. Ospite del festival della legalità Legalitria, bonculture lo ha intervistato:

Qual è il significato del titolo del libro?

Viene da un’intercettazione ambientale del clan Giuliano di Pachino, dove si diceva che fosse pronta un’eclatante azione omicidiaria per lo scomodo giornalista Paolo Borrometi. Quella è una zona dove la violenza è molto più usata rispetto ad altre aree della Sicilia. Il concetto che cerco di esplicitare, non solo col titolo, è che un morto ogni tanto non indigna. Chiaramente, è più complesso avere una terzietà e un’obiettività nel parlare di un’azione omicidiaria, utilizzo le parole del Gip, che doveva riguardare il sottoscritto.

Nel libro ha descritto, con estrema dovizia di particolari, la provincia di Ragusa dal punto di vista degli affari illeciti: la definisce ‘babba’ perché rispetto ad altre province della Sicilia sembra occupi un posto di secondo piano nel circuito malavitoso. Ma non è così, dal riciclaggio alla droga, dalle estorsioni fino ad arrivare al settore agroalimentare che possiede come prodotto d’eccellenza il pomodoro di Pachino. Perché a Ragusa la mafia ha investito ingentemente nell’agricoltura?

Il ragusano e il siracusano da sempre sono zone a vocazione agricola. La ricchezza qui risiede nella terra. Quindi, è ovvio che laddove le mafie trovano ricchezza ci si buttano perché non sono solo controllo sociale, al sud hanno un duplice obiettivo: da un lato, appunto, il controllo sociale, dall’altro l’arricchimento. Ecco perché hanno investito in questo settore. Grazie all’osservatorio presieduto da Gianfranco Caselli di Confagricoltura sappiamo che dopo il traffico di sostanze stupefacenti, la seconda voce di arricchimento nel bilancio, definiamolo così, delle mafie è proprio l’agricoltura. Stiamo parlando di agromafie.

Un morto ogni tanto è anche un’autobiografia, dove racconta la sua vita fino ad adesso: sotto scorta dal 2014, ha subito minacce, attentati, aggressioni violente ed insabbiamenti. Molti, finora, le hanno detto: “ma chi te lo fa fare?”. Perché ha deciso, attraverso il mestiere di giornalista, di combattere la mafia?

Sognavo di fare il giornalista fin da piccolo, quado tra i banchi di scuola ho incontrato la storia di Giovanni Spampinato, un collega ucciso nella mia provincia di Ragusa, uno dei nove uccisi in Italia. Otto in Sicilia, e uno purtroppo, Giancarlo Siani, in Campania. Non mi sono intestardito, come qualcuno potrebbe pensare, ma ho fatto semplicemente il mio dovere di giornalista che è quello di scavare, di porsi delle domande e di aprire gli occhi ai cittadini. Nell’articolo 21 della nostra Costituzione non si riporta soltanto che informare è un diritto/dovere del giornalista ma, soprattutto, riporta il diritto del cittadino ad essere informato. Quindi un giornalista che viene meno alla propria funzione di informatore sta facendo male il proprio mestiere, e poi porta con sé la responsabilità di non aver informato. La mia paura è stata ed è, ogni giorno, tantissima. Come si fa a non avere paura, in questo momento dove sono parte offesa in 42 processi. È una paura drammatica ma, il senso del dovere, rispetto ad un mestiere che ho scelto io di svolgere e non qualcun altro per me, è fondamentale.

Ha parlato di educare alla bellezza le nuove generazioni. Quanto è importante questa attività nella tua lotta alla mafia?

È fondamentale: ho sempre pensato che peggio della mafia c’è solo la cultura mafiosa, o meglio la sub-cultura mafiosa. Innanzitutto, come diceva Peppino Impastato, bisogna educare alla bellezza, ovvero educare alla cultura. Nella mia terra, e più in generale in Italia, abbiamo da sempre, anche in questo periodo che stiamo vivendo, la necessità di trovare degli eroi per poi demolirli. Io penso che la cosa più bella non sia quella di trovare eroi, ma avere persone che facciano il proprio dovere, con la schiena dritta e, nel senso più alto del termine, con educazione civica, culturale e sociale.

È di questi giorni la notizia che uno dei killer del giudice Rosario Livatino percepiva, illecitamente, il reddito di cittadinanza. Un cugino del giudice ragazzino, parlando a nome della famiglia, ha dichiarato di sentirsi tradito dallo Stato. Qual è la sua opinione in merito?

Abbiamo visto come il reddito di cittadinanza sia uno strumento fondamentale per quanto riguarda la lotta alla povertà. Fatta questa premessa, però bisogna dire che il reddito di cittadinanza viene concesso tramite requisiti che sono autocertificati. Lo Stato ha il dovere di verificare, tra questi oltre alle difficoltà economiche anche l’assoluta assenza di misure cautelari e di condanne per reati gravi, e i reati mafiosi rientrano tra questi, sia per chi richiede il reddito di cittadinanza e sia per i componenti del suo nucleo famigliare. Perché sto sottolineando questo aspetto? Perché, in questo caso specifico, ad autocertificare non era il killer di Livatino ma sua moglie. I parenti del giudice che hanno fatto quell’affermazione forte, purtroppo hanno ragione. Io sono per l’autocertificazione, perché snellisce la burocrazia ma devono essere sottoposte a rigorosi controlli. Il bonus concesso ad uno dei killer di Livatino non è un errore eccezionale: dall’inizio dell’anno sono stati oltre cento i sussidi incassati illegalmente, in varie parti d’Italia da soggetti pregiudicati per reati gravissimi o legati alla criminalità organizzata. Lo Stato non può abdicare al suo ruolo di controllore.

Nel libro riporta una frase abbastanza amara del giudice Giovanni Falcone: “Per essere credibili in questo Paese bisogna essere ammazzati”. È cambiato davvero qualcosa, rispetto ad allora? Quali sono stati i progressi nel prendere coscienza, da parte di tutti, che la mafia esiste?

Sono stati fatti tanti passi avanti sotto il profilo della repressione. Ogni norma, nel nostro codice penale, è stata scritta con il sangue di magistrati, di inquirenti, persone che non ci sono più. Basta pensare alle norme post uccisione di Rocco Chinnici, Pio La Torre, Falcone e Borsellino. Per quanto riguarda l’opinione pubblica, sono stati fatti passi avanti dopo le grandi stragi: la gente si rese conto che la mafia esisteva, ed era un problema. A ventotto anni di distanza, le mafie hanno scelto un’altra strategia, quella della sommersione. Apparentemente sono meno violente, spargono meno sangue, ma sono molto più agguerrite per quanto riguarda la corruzione e l’illegalità. Ciò rappresenta un problema, perché tutti i passi avanti che erano stati fatti si sono quasi perduti. Oggi, c’è chi ritorna a dire che la mafia non esiste più o che sia stata del tutto sconfitta. Ovviamente, non è così. In Italia la lotta alla mafia è sempre stata ciclica, invece dovrebbe essere costante.

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