Bulli e new media, prof Rivoltella: “Il circuito della ricompensa regola le decisioni degli adolescenti”

by Modesta Raimondi

Professore di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento presso l’Università Cattolica di Milano, oltre che presidente e direttore scientifico del Cremit, Pier Cesare Rivoltella è specializzato in Internet e nuovi media. Il suo sguardo sui consumi tecnologici è autorevole e competente, e il suo testo in cui si riconsiderano le virtù teologali per poi declinarle nella navigazione in rete, è innovativo e interessante.

Nelle sue interviste spiega quanto sia prezioso costruire comunità attraverso i media, tenendo insieme tecnologia e pastorale, in un’ottica di risacralizzazione di ambiti e comportamenti che, in città infestate dal problema delle baby gang, diventano quanto mai importanti.

Bonculture lo ha intervistato, per comprendere quanto sia rilevante mandare in rete due forme di presenza, perché è inutile negarlo, la rete è una seconda piazza, il cui corretto uso è ancora da imparare.

Professore, cosa significa per i ragazzi essere in Internet e in che modo questo condiziona il loro comportamento?

Essere in rete per i ragazzi è una cosa assolutamente naturale, così come lo è per gli adulti. Parliamo quindi di naturalizzazione dei consumi digitali. La rete è una nuova dimensione della vita sociale, così come lo è quella fisica. È un altro ambiente, un altro spazio, un’altra dimensione all’interno della quale si può produrre conoscenza, scambiarsi informazioni ed entrare in relazione.

È chiaro che influenzi comportamenti e valori. I media condizionano l’agenda delle cose che ci fanno sembrare importanti, e poi determinano i comportamenti.

È un fenomeno da tenere sotto controllo, per il conformismo e per i rischi che questo conformismo comporta. Sentirsi parte di un gruppo può voler dire essere portati a dire non quello che si pensa davvero, ma quello che si percepisce come accettabile per il gruppo. Un fatto che non facilita il pensiero divergente e che a lungo andare può produrre conformismo.

L’altro aspetto che è tipico di una educazione mediale, è legato alla semplificazione. Nella rete spesso prevalgono le semplificazioni, si ricorre agli stereotipi, e di solito stereotipi e semplificazioni sono nemici della verità. La verità è complessa e richiede dei distinguo, ma la complessità mal si adatta agli spazi della comunicazione on-line.

Si parla molto di bullismo e violenza giovanili. Potremmo dire che la famiglia educa e che la società diseduca? Famiglia e società sono ambienti educativi che camminano parallelamente o fanno da contrasto l’una all’altra? E, se società e famiglia non vanno nella stessa direzione, Internet, da che parte sta? da quella della società o da quella della famiglia?

In una visione classica, la famiglia è la base della società, quindi non le contrapporrei tra loro. Piuttosto considererei la famiglia come la prima cellula della costruzione sociale. Della società fanno poi parte altri contesti di educazione formale (come la scuola) ed informale (come internet).

È difficile dire chi educa e chi diseduca. Nel caso di una famiglia disintegrata, poco attenta, fortemente problematica, è molto probabile che la famiglia non educhi e che invece ci siano spazi sociali che educano. Difficile costruire delle identificazioni.

A proposito delle stragi del sabato sera, qualcuno ha parlato di incorporeità giovanile, di ragazzi abitati da allucinante inconsapevolezza. Sono davvero così i ragazzi nel loro sabato sera? Lei con che occhi li guarda?

Faccio fatica a comprendere cosa significhi incorporeità. Faccio meno fatica a confrontarmi con la ricerca neuro-scientifica che ci dice che in adolescenza, quel che regola le decisioni dei ragazzi, è il circuito della ricompensa e il sistema delle gratificazioni, che è legato alla liberazione di dopamina, che è uno dei neurotrasmettitori del piacere, collegata a situazioni stimolo particolarmente eccitanti.

Perché i ragazzi non vedono il pericolo? Perché ci si infilano dentro quasi facendolo apposta? Perché il regolatore delle loro decisioni è il circuito della ricompensa, che è lo stesso che spiega le condotte del giocatore d’azzardo, piuttosto che la dipendenza da sesso.

Più che parlare della incorporeità, parlerei del prevalere del protagonismo del circuito della ricompensa. Cambiano le forme del disagio. Ma gli adolescenti sono adolescenti, ieri come oggi. Hanno le loro specificità e occorre conoscerle per sapere come intervenire preventivamente.

Lei parla spesso di costruire comunità attraverso i media. Come si fa nello specifico?

Immaginando la tecnologia all’interno di un processo umanizzante. La tecnologia, se lasciata agire da sola, produce poco. Se guidata da un tutor di comunità, o da una intelligenza umanizzante, con finalità educative, riesce a costruire cose interessanti.

Faccio l’esempio della telemedicina. Io posso monitorare a distanza un anziano al suo domicilio attraverso il tracciamento dei suoi dati biometrici. E questo mi consente di lasciarlo da solo, non spendendo denaro in operatori che lo vadano a trovare. Quindi mi faccio carico della sua salute, che tengo monitorata, ma dal punto di vista umanizzante non produco nulla. Anzi, la tecnologia lo isola ancora di più. Se però lo stesso dispositivo di telemedicina, viene inquadrato all’interno di una strategia che prevede operatori volontari domiciliari adeguatamente formati, che spieghino a lui e alla sua famiglia come gestire quella tecnologia, si favorisce lo stare insieme attorno all’anziano. Si può ricostruire, quindi, un piccolo pezzetto di comunità familiare e condominiale.

In questo secondo caso, la tecnologia non diventa un fattore di isolamento, bensì di integrazione.

E sulla seconda strada bisogna andare.

E noi cittadini, genitori, famiglie, cosa siamo chiamati a fare nei nostri semplici comportamenti quotidiani?

A gestire le responsabilità in prima persona, collocandoci in una logica di medio attivismo.

Il problema della educazione ai media nella società digitale, non è un problema della singola famiglia, ma un problema sociale. Quindi occorre una movimentazione.

Io auspicherei dei movimenti dal basso, con la costituzione di reti, una funzione attiva delle associazioni, e soprattutto la capacità di ciascuno di non considerare che il problema sia di altri. Occorre riguadagnare un senso individuale della partecipazione, un senso che è andato un po’ smarrito e che invece esisteva alla fine degli anni 60/70, e che lentamente si è dileguato.

Ha scritto il testo “Le virtù del digitale” per spiegare come risacralizzate valori e momenti, ci può spiegare cosa intende? 

In quel libro ho provato a declinare le virtù nel digitale.

L’idea di ragionare sulle virtù invece che sui rischi, dice già di un posizionamento teorico, concettuale, che è anche educativo. Quello cioè di non considerare i media come un problema, ma come un’opportunità, dentro però un atteggiamento virtuoso.

Cosa significa sviluppare prudenza attraverso il digitale? E cosa diventa la carità?

Esercitare la carità vuol dire non accontentarsi di esprimere la propria adesione ad una causa con un like, o con il pagamento di 2 euro via sms, ma chiedersi come tornare a sporcarci le mani, partecipare attivamente.  

Riguardo la violenza giovanile e il problema delle baby gang che affligge alcune città, tra cui Foggia in Puglia, lei crede che i video-giochi o i media in qualche modo centrino? C’è una responsabilità, qualcosa da invertire nei consumi tecnologici di ogni giorno?

Certamente si, ma dipende dal contesto. Se il ragazzo vive in un contesto di deprivazione, il suo basso capitale culturale, la violenza che respira, fa sì che si accosti ai media in un modo che è difficile pensare non sia quello della violenza e della sensibilità al condizionamento, perché non ha anticorpi, non ha senso critico. Credo quindi che sia particolarmente importante lavorare su questi temi in quei contesti. Voi a Foggia, tra l’altro, in centro storico, avete il comprensivo di Santa Chiara della dirigente Mariolina Goduto che è un esempio straordinario, al livello nazionale, di che cosa possa voler dire, lavorare in un certo modo dentro un contesto di privazione come è quello in cui lei opera. Secondo e bisogna sempre lavorare sui contesti, non commettere l’errore di isolare lo strumento, perché lo strumento produce effetti sempre in relazione ai contesti in cui si colloca il suo uso.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.