Come un battito di ciglia. 14 agosto 2018, un anno fa

by Deborah Alice Riccelli

Non riesco a calmarmi, perciò scrivo.

Oggi siamo tutti lì sopra. Siamo tutti sul nostro ponte. Negli anni a venire ognuno di noi genovesi ricorderà dove si trovava e cosa stava facendo dalle 11:36 alle 12:00 della vigilia di ferragosto.

 Comunque, sul #PonteMorandi ci siamo noi che non siamo ancora andati in vacanza e magari siamo passati di lì poco prima del crollo e ci siete voi che, attraverso le immagini della tragedia, ricordate di esserci passati.

 Per raggiungere altre città, la frontiera, il mare o per visitare Genova. Ma, ripensandoci, quante volte lo abbiamo percorso? Noi di ponente, a volte, anche quattro volte al giorno. Già, su quel ponte potevamo esserci proprio tutti.

Pare brutto dirlo ma questo crollo è quello che stavamo aspettando.

Perché?

Perché viviamo ogni giorno sentendoci presi in ostaggio dalle tragedie imminenti.

Non è ammissibile nel 2018 morire perché crolla la strada sotto le ruote dell’auto.

 No, in fondo, la strada che crolla sotto le ruote non la si prende in considerazione. Forse lo si dice scherzando, ma mai seriamente. Alcuni sono terrorizzati dall’aereo o da altri mezzi di trasporto. In questo particolare periodo c’è chi sceglie di non andare in vacanza per paura degli attentati terroristici, le città sono invase dai dissuasori e dalle barriere antisfondamento, ma chi può aver paura del crollo di un ponte autostradale?

Il nostro Ponte doveva essere un posto sicuro come l’abbraccio di una nonna. Non lo è stato.

Vero è che ci dava un po’ di brivido percorrerlo, un po’ come salire su di una giostra sospesa in aria. Una giostra sicura, però.

 A Genova oggi è accaduto un qualcosa di assurdo, inimmaginabile. Qualcuno è morto seduto comodamente e, credendosi al sicuro, sulla sua auto. Qualcuno è morto raggiungendo il luogo di lavoro o il mare e, badate bene, non perché procedeva ad una velocità folle. Qualcuno è morto percorrendo il nostro ponte più bello, il nostro orgoglio, nel mezzo di un estate torrida rinfrescata da due giorni di pioggia.

 Con le cinture di sicurezza allacciate.

Non ci lasciano neppure il tempo di renderci conto della gravità della situazione mentre cercano la colpa. È vero, forse, mancava la manutenzione, ma sappiamo bene quanti sono quelli che sbuffano quando devono cambiare strada perché ci sono i lavori in corso.

Siamo inadeguati, non ci rendiamo conto delle situazioni rischiose e non prestiamo cura. Prima. Dopo sì. Ma dopo è sempre troppo tardi. Quanti soldi girano in queste gare di appalto che non partono mai?

Ma io in fondo non voglio fare polemica. Perché è troppa la rabbia.

È troppo il dolore di sentirsi vivi al posto di altri _perché anche questo fa male_ è troppo forte il boato nelle orecchie che vado a risentire da ore.

Siamo cresciuti così. Attendiamo le tragedie e forse sono proprio loro a ricordarci gli anni e le stagioni. Qualcuno può fermarsi un attimo e chiedersi perché accade? Dietro ad ogni tragedia c’è una firma non messa, una pratica in attesa, una busta, del denaro in sospeso. Io non so rispondere perché in questo momento a me non importa. Continua la conta delle vittime. Ci chiederemo dove stavano andando e quale vita hanno abbandonato?

Da domani guarderemo le immagini. I volti delle vittime ci sorrideranno dalle pagine dei giornali. Passeremo lì sotto col naso all’insù, lo sguardo rivolto al ponte scomparso.

Ingoiato nella coscienza o dall’ incoscienza degli uomini. Perché solo lì vivrà la colpa. O la ragione. Nella coscienza di chi la possiede.

 Nessuna parola ha un senso tra le lamiere contorte. Nessuna. Però ha un senso il boato che sento nelle orecchie. Ha un senso il vuoto che sento dentro al cuore. Ha un senso il suono delle sirene. Avrà un senso l’urlo di gioia di chi vedrà apparire una persona cara tra i sopravvissuti. Purtroppo avrà un senso il vuoto nel letto, il posto vuoto a tavola e la valigia per le vacanze in attesa che troppi si troveranno davanti questa sera.

 Possiamo solo stringerci. Stringiamoci forte come se fosse l’ultima volta.

14 agosto 2019, oggi.

Ho scritto le parole che avete letto qui sopra un anno fa, a caldo, dopo poche ore dalla tragedia che ancora oggi faccio fatica a ricordare.

Le vittime che in quel tempo non conoscevo sono diventate un numero. Ogni volta che sentivo pronunciare un nome pregavo che fosse l’ultimo.

43.

43 ultimi respiri.

43 nomi.

43 volti che, piano piano, hanno riempito le pagine dei giornali.

43 rose che ogni 14 del mese qualcuno posa sul greto del fiume.

43 storie di vita che si trasformeranno in racconti prima e diventeranno un libro poi, attraverso il ricordo dei parenti che in questo modo ci chiedono di non dimenticare.

Le manifestazioni di solidarietà (libri scritti da vari gruppi di autori, canzoni, cene di beneficenza, mostre fotografiche) si sono susseguite in questi 365 giorni appena trascorsi. In questi mesi alcune delle mie domande hanno trovato risposta.

Chi erano le vittime e dove stavano andando qualcuno ce l’ha raccontato.

Forse, di chi è stata la colpa e se qualcuno ce l’ha, non lo sapremo mai.

Le polemiche sui progetti per la ricostruzione non sono mancate.

Il malessere per una città devastata, divisa in due e ridotta in ginocchio dal traffico, neppure.   

Parole ed eventi hanno provato a colmare il vuoto.

Ma ci sono dei silenzi che fanno troppo rumore. I ricordi, anche.

Io, di quel giorno, ricordo ogni istante.

1 millisecondo è il tempo di ciclo o periodo (intervallo di tempo tra due onde successive in un fenomeno ondulatorio) ad una frequenza di 1 kHz.

3 millisecondi sono la durata del battito d’ali di una mosca.

3,3 millisecondi è il tempo intercorrente fra l’attivazione e la detonazione di una carica di esplosivo C4.

Dai 300 ai 400 millisecondi è il tempo di un battito di ciglia. 

Un clin d’oeil, ein wimpernschlag, a blink of an eye, un battito di ciglia ed ecco che la nostra vita cambia o smette di essere tale.

Un battito di ciglia è la frase che i cronisti hanno pronunciato più volte durante l’esplosione dei resti del Ponte Morandi lo scorso 28 giugno. Ogni notte è l’ultima frase che accompagna la mia veglia.  Mi chiedo se è stato lo stesso lasso di tempo che ha segnato la sua distruzione, senza esplosivo.

Il senso di vuoto, come se fossimo sul bordo di un precipizio, non ci abbandona.

La scomparsa del moncone del ponte, che ci ha fatto compagnia per troppi mesi tormentando la nostra mente ricordandoci l’accaduto, per alcuni è stata un sollievo e per altri una nuova perdita. Un dolore come quello che si prova per un arto amputato del quale siamo certi di percepire dimensione e forma nonostante, guardando il punto preciso in cui era, siamo certi che non ci sia più.    

Palazzi, case rese macerie e… vita.

La vita, nonostante. La vita che, come la nascita di un nuovo giorno, nessuno può fermare.

La vita che ha bisogno di vincere su tutto. Sopra al rumore dei due boati che ci tormentano le orecchie. Il boato della caduta e il boato della distruzione.

La vita nella nascita di Pietro, figlio di Gianluca che è uno dei sopravvissuti, alle 23.59 del 13 settembre 2018, ad appena un minuto prima nel primo mesiversario della tragedia.  

La vita che esplode nelle risate dei bambini che giocheranno nel campo sportivo polivalente di Campomorone intitolato, il 9 maggio scorso, a Samuele Robbiano una delle vittime più giovani della tragedia del 14 agosto.

La vita che porta Paola, mamma di Mirko Vicini 30 anni ultima vittima estratta dalle macerie del ponte, su di un elicottero per esaudire il sogno di suo figlio. Ha indossato la felpa preferita da Mirko ed è andata lassù. Sempre più in alto dove siamo soliti posare il nostro sguardo mentre cerchiamo disperatamente un segno da chi non ci è più accanto. Dice di averlo sentito vicino, nei rumori del vento.

La vita che colora i palazzi di Certosa_ vicini alle macerie del ponte Morandi_ sui quali numerosi writer hanno dipinto giganteschi murales. Colore, bellezza, voglia di rinascita.

La vita che abiterà nuove stanze per i seicento sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro case.

Perché è questo il modo in cui dobbiamo far vivere chi non c’è più. Parlando, ricordando, portando a termine sogni e desideri. Ricominciando. Andando avanti. Anche quando fa male, anche quando il ricordo, la mancanza e il senso di vuoto ci stringe la gola e ci sembra di soffocare.  

Perché ricordare è una delle cose che ci spinge ad andare avanti, nonostante tutto.

Isabelle Allende scrisse:

Non esiste separazione definitiva fino a quando esiste il ricordo.

A voi questo ricordo perché si possa al più presto ricostruire senza sbagliare.  

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