“È ora di non avere più paura della mafia a Foggia, altrimenti non avremo più ossigeno per respirare”. La forza di Giovanna Belluna Panunzio

by Antonella Soccio

Mentre scriviamo un’altra avviata attività commerciale, una macelleria, è stata colpita da un attentato incendiario a Foggia, città di quarta mafia, la cui organizzazione criminale, in mano a varie batterie e famiglie, è nota col nome di Società. Le consuete bombe autunnali, forse come il clima impazzito, sono in ritardo di qualche mese. È facile ipotizzare che la “tassa di sovranità” del racket sia stata differita a dopo le feste, per gentile concessione dei mafiosi alla crisi economica dei consumi.  

Il 10 gennaio la vicepresidente di Libera Daniela Marcone, figlia della vittima di mafia Francesco Marcone, insieme a don Luigi Ciotti ha lanciato, a due anni dalla grande manifestazione dei 40mila del 21 marzo del 2018 una nuova grande marcia. Appuntamento alle ore 15 davanti al luogo dell’ultima uccisione in Viale Candelaro, per poi transitare a Parcocittà, luogo simbolo del riscatto di un pezzo di periferia, al Parco San Felice, e dipanarsi nelle vie dei quartieri dove vivono alcuni esponenti di mafia e nei posti dove il controllo della criminalità è talmente forte da assumere i contorni nitidi dell’anti Stato. Non ci sono buche, non c’è monnezza, non ci sono questuanti, non ci sono parcheggiatori abusivi, non ci sono macchine in seconda fila, pochissimi anche i migranti al Candelaro.   

Sarà forse la prima volta che una parte di città e di ceto medio riflessivo e “garantito” sfilerà in questi luoghi, oltre le visite elettoralistiche. In questi due anni Libera ha costituito il suo presidio in città, i circa 30 volontari si vedono ogni mercoledì sera, il loro impegno sta generando vari progetti per i minori svantaggiati. Da più parti nel corso delle riunioni organizzative emerge oggi la volontà di non parlare solo ai “buoni”, ma di contaminarsi.

“Dobbiamo parlare anche coi cattivi”, ha detto Pietro Fragasso della cooperativa Pietra di Scarto, che gestisce un bene confiscato alla mafia a Cerignola e dà lavoro a 7 persone che vengono da ambienti marginali e criminali.

“Dobbiamo scoppiare di umanità. Perché questo luogo è nostro, perché la città è nostra, perché siamo tutti arrabbiati”, è lo slogan di Daniela Marcone.

Giovanna Belluna Panunzio era molto giovane quando suo suocero, Giovanni Panunzio, nel 1992 fu ucciso dalla mafia del boom edilizio, raggiunto dai proiettili nella sua auto, a pochi metri dall’ultimo omicidio che ha aperto il 2020. La sua testimonianza in questi anni insieme all’associazione che porta il nome della vittima ed è presieduta da Dimitri Lioi è stata fortissima. “Facciamo che non sia solo una bella manifestazione, si resta soli e invece servono i fatti, torniamo ad essere umani. La solitudine fa male in tutti i sensi”, ha detto nella partecipatissima assemblea di preparazione alla marcia al Dipartimento dell’Università di Foggia.

Noi di bonculture l’abbiamo intervistata.

Giovanna, come leggi questa nuova recrudescenza mafiosa a Foggia?

Riflettendo, con mio marito Michele, la cosa che dà più fastidio e che ci fa più male, indipendentemente da chi venga ammazzato o da chi subisca un attentato o una bomba- perché noi non abbiamo mai giudicato le persone non buone né le persone che hanno scelto un’altra vita- è quella di non arrivare mai prima. Non si arriva mai prima che qualcosa accada. Come 27 anni fa. In questo non è cambiato quasi nulla. Vanno bene gli incontri, la passeggiata. Però poi la sera?

Mi colpiva molto il tuo messaggio sulla solitudine.

Sì, la sera ognuno torna a casa propria. Non c’è la stessa solitudine di 30 anni fa, quella della paura è una scusa. La paura c’è sempre, c’è e ci sarà. Non è vero che non c’è, dico sempre ai ragazzi: non date retta a chi dice che non dobbiamo avere paura. La paura c’è ed è un dato di fatto. Oggi però non si può più dire: ho paura. Perché non si è più soli, ci sono vari mezzi, varie associazioni. Non è più come 30 anni fa, 27 anni fa.

Tuttavia in tutti questi anni di lotta alla mafia, i vari sportelli istituzionali anti criminalità, promossi dalle associazioni, hanno raccolto pochissime denunce. Non c’è anche un’autocritica da fare?

Noi dobbiamo essere presenti, perché amiamo la nostra terra, dobbiamo andare oltre certi disaccordi che si possono creare, dobbiamo essere presenti comunque e sempre per la città, però l’impegno non può finire in quel momento di manifestazione. La continuità deve essere tutti i giorni della nostra vita.

Una volta in un discorso pubblico, raccontasti che alcuni commercianti si rifiutavano di venderti la merce. Quanto è presente il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nell’economia legale? Tu lo avverti? Lo conosci?

Si vede, lo percepisco. Non giriamoci attorno. Noi sappiamo le persone chi sono, come diceva Mario Nero, testimone di giustizia, i nomi e cognomi se noi li leggiamo sono gli stessi i 27 anni fa. I loro figli e nipoti. Sappiamo chi sono, c’è qualcosa che non va. Dobbiamo avere il coraggio di andare a prenderli con le nostre mani e spostarli.

Quanta ipocrisia c’è? Acquistare cocaina, conoscere le piazze di spaccio e frequentarle non fa parte del sistema?

L’ipocrisia c’è. Ma sta a noi dare l’esempio, fare i fatti. Far capire ai ragazzi, ma anche agli adulti, perché io credo che siano più gli adulti a dover capire, vedo più loro avere comportamenti negativi.  

Il vostro presidente Dimitri Lioi ha posto molto l’accento nel corso dell’ultima campagna elettorale sul voto clientelare in quei quartieri più inclini alla mafiosità. Perché non si riesce a fare una vera pulizia?

Forse perché si ha paura. Io credo che certi fenomeni siano andati avanti per tanti anni perché non siamo stati capaci, né noi come cittadini perché l’omertà era tanta e anche da parte di alcune istituzioni negli anni addietro, di andare a colpire chi si doveva colpire. È una cosa che ci trasciniamo da tanto tempo. Adesso è arrivata l’ora, se non lo facciamo adesso ci accorgeremo di non avere a Foggia neppure l’ossigeno per respirare.

Tu hai figli? Sono ancora a Foggia o sono emigrati? Sono andati via?

Stanno qui, perché l’ho voluto fortemente. Ho una figlia di 32 anni e un figlio di 30, e tre nipotini. Tutti e due qui volutamente.

È stata una scelta politica?

Sì, forse sì, è stata una scelta politica. E spero di non essermi sbagliata.

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