«L’epidemia non si argina aumentando i posti letto di Terapia Intensiva.» L’allarme di Alessandro Vergallo presidente AAROI-EMAC

by Michela Conoscitore

La pandemia da Covid-19 ha messo in evidenza fragilità e criticità del sistema sanitario nazionale, già massicciamente colpito da tagli alla spesa negli scorsi decenni. Se durante la prima ondata, per quanto drammatica, il lockdown ha aiutato i sanitari a gestire i malati, ora con la seconda la situazione si è complicata per via di una diffusa incertezza sull’evoluzione della pandemia e, soprattutto, per la carenza di medici anestesisti e posti letto nei reparti di rianimazione.

Le varie terapie intensive degli ospedali italiani, anche a causa di una maggior infettività del patogeno, hanno visto diminuire i posti letto a disposizione ad un ritmo vertiginoso e preoccupante.

L’emergenza in questi giorni sembra stia rientrando ma, per analizzare con accuratezza la situazione, bonculture ha intervistato il dottor Alessandro Vergallo, Presidente Nazionale dell’AAROI-EMAC (Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani Emergenza Area Critica)

Dottor Vergallo da più parti si raccoglie il grido di allarme degli anestesisti e rianimatori sull’insufficienza di posti letto e della dotazione organica. Com’è la situazione? Quali sono le zone in cui gli operatori sono in maggiore sofferenza?

Le criticità sono generalizzate. Ad oggi non ci sono Regioni che non siano in sofferenza per disponibilità di posti letto di Terapia Intensiva e soprattutto per carenza di Medici Anestesisti Rianimatori e di Infermieri di Area Critica. La situazione è pertanto molto seria, ma il raddoppio del fabbisogno dei posti letto di terapia intensiva nel giro di una settimana ci pare troppo pessimistico, dato l’andamento calante, da alcuni giorni, del trend contagio. Comunque, il punto più importante è un altro: è impensabile credere di arginare l’epidemia ponendosi come obiettivo principale l’aumento dei posti letto di Terapia Intensiva. La strategia va pensata ponendo argini a monte, non a valle.

Come ha dichiarato in un’intervista, non si sarebbe arrivati a questo se il Covid si fosse combattuto prima, invece di farlo arrivare nei reparti di rianimazione. Quindi oltre ad essere esiguo il numero di anestesisti a disposizione, senza contare il contact tracing, ha fallito anche la medicina territoriale. Cosa non ha funzionato in quel comparto, secondo lei?

La prima considerazione riguarda il periodo antecedente la seconda ondata, in cui sono stati dimenticati i grandi sacrifici fatti, e si è pensato che il pericolo fosse superato. Il ‘liberi tutti’ dei mesi estivi è stato un errore che stiamo pagando. A questo aggiungiamo che le barriere del territorio che già non avevano funzionato nella prima ondata, non hanno fatto da argine neanche in questa seconda ondata. Sarebbe stato necessario ripensare la medicina territoriale anche in funzione della pandemia, definendone, tra l’altro, la fondamentale funzione di fornire informazioni ai propri assistiti invece che limitarsi, anche nei casi in cui il cittadino è riuscito a contattare il proprio medico di famiglia, ad inviarli negli ospedali. Questo, per la seconda volta, non è accaduto e ancora una volta gli ospedali sono stati presi d’assalto, a partire dai Pronto Soccorso.

Come sono cambiati i carichi di lavoro e gli standard di sicurezza dei luoghi di lavoro? Pensiamo ai contagi tra gli operatori in alcune rianimazioni. Episodi che sembravano quasi impossibili vista anche l’abitudine di questi professionisti a maneggiare e utilizzare dispositivi di sicurezza anche in tempi pre-Covid. Sono arrivati stanchi a questa seconda ondata?

Partendo da quest’ultimo punto, è evidente che gli operatori sanitari, in particolare quelli che con il COVID lavorano in prima linea, sono molto stanchi. All’immenso lavoro della prima ondata, non è seguita alcuna tregua. Per tentare di recuperare le prestazioni ospedaliere saltate è stato necessario lavorare in estate con ritmi molto elevati e le ferie accordate sono state generalmente per brevi periodi. I carichi di lavoro oggi sono elevatissimi, stiamo mettendo in atto tutti i possibili strumenti riorganizzativi per far fronte all’emergenza, compresi doppi turni, rinuncia alle ferie e alle ore di formazione e, in alcuni casi anche ai riposi, ma è una situazione che, come è comprensibile, non potrà protrarsi a lungo. Rispetto al numero di contagi, sappiamo bene che il rischio zero non esista, sebbene come categoria di Medici siamo abituati all’utilizzo dei DPI, è fuor di dubbio che con il COVID il rischio sia elevato per tutti, come dimostra l’aumento dei contagi, e della malattia COVID conclamata, anche tra i professionisti sanitari ospedalieri.

Assodato che c’è stato un errore nella programmazione della formazione degli anestesisti e rianimatori negli anni passati, già prima del Covid questa scarsità di professionisti era un problema ma, ora è diventato una tragedia. Secondo lei la distribuzione degli anestesisti rianimatori in Italia è congrua?

Da oltre dieci anni l’AAROI-EMAC denuncia una grave carenza di Medici Anestesisti Rianimatori, allarme che, negli ultimi anni, si è esteso anche ai Medici di Emergenza-Urgenza. Parliamo di migliaia di Professionisti in meno, con il risultato che il nostro lavoro si è trasformato in una battaglia quotidiana per coprire i buchi di una pessima programmazione ultradecennale. Purtroppo è stata necessaria una vera e propria tragedia per far emergere in tutta la sua gravità tale carenza che oggi esplode in tutta la sua drammaticità in ogni regione. Il problema è, infatti, nazionale e lo è sempre stato.

Agli anestesisti in prima linea oggi è anche richiesto di formare i colleghi, il che è un aggravio in più di lavoro e dall’altro lato c’è il personale in pensione. I professionisti in pensione non potrebbero dare una mano dal punto di vista della formazione? Aiutare i colleghi in prima linea a formare i non anestesisti all’uso di ossigeno, ventilazione non invasiva cioè le basi dell’assistenza respiratoria? Perché uno dei problemi è che oggi ci sono pazienti in assistenza respiratoria in reparti in cui questa assistenza non si è mai fatta. Lei che ne pensa?

Innanzitutto è necessario chiarire che l’attività svolta da un Medico Anestesista Rianimatore non può essere svolta da nessun altro Medico, in quanto estremamente specialistica. Non si tratta, quindi, di formare specialisti di altre discipline che, peraltro, sono già occupati a gestire tutte le attività di propria competenza nei rispettivi reparti. In nostro aiuto sono arrivati e stanno arrivando i Medici in Formazione degli ultimi due anni della nostra scuola di specializzazione, che hanno già un alto livello di formazione e che, opportunamente inseriti a fianco dei nostri Specialisti rappresentano una risorsa importante. Quanto ai Medici in pensione, in molti hanno aderito e svolgono la loro attività per lo più in reparti no Covid. Anche questo è stato ed è un aiuto prezioso, che però non può essere considerato, al massimo, altro che una soluzione tampone di emergenza.

Molti medici lamentano le difficoltà di comunicazione e spesso pazienti migliorati restano in aeree ad elevata intensità di cura e pazienti che peggiorano non trovano posto nella propria città e vengono trasferiti. Ritiene utile la presenza di un coordinamento interaziendale per quanto riguarda il trasferimento dei pazienti?

In molte regioni questo coordinamento è stato attuato sin dalla prima ondata, con i migliori risultati possibili in termini di rapidità nella gestione delle risorse di posti letto disponibili e della loro implementazione. Il coordinamento delle Terapie Intensive lombarde, avvenuto già sin da marzo e mai cessato, ne è l’esempio più lampante.

Lei è un sindacalista di lungo corso, che idea ha del territorio? Gli anestesisti possono davvero e soprattutto realisticamente trattare a domicilio o in zone preposte i pazienti a bassa e media gravità?

L’attività dei Medici Anestesisti Rianimatori si svolge in reparti ad alta intensità di cura nei confronti dei pazienti critici. Ricorrere a questi Specialisti in reparti a bassa e media intensità di cura non solo non va bene, ma produce ulteriore affanno nei Colleghi e maggiore criticità nei reparti ad alta intensità di cura. Al punto che l’AAROI-EMAC ha inviato una diffida a tutte le Aziende Sanitarie per scongiurare questa evenienza. Altra cosa è il ruolo dell’Anestesista Rianimatore nel 118, che può avere un ruolo fondamentale anche nella cura a domicilio, ma come ben sappiamo il Sistema 118 è differente da Regione a Regione. In diverse Regioni, ad esempio, paradossalmente non è prevista, anzi è impedita la presenza dell’Anestesista Rianimatore in questo delicato ambito, ridotto soprattutto al sud, ma anche in Piemonte, ad un succedaneo della Guardia Medica, con i risultati poco confortanti, avvenuti peraltro anche in zone relativamente poco colpite dal Covid, che tutti possono osservare proprio in tali zone sul piano dell’efficienza del sistema sanitario territoriale.

A marzo fece molto scalpore il documento della SIAARTI che sostanzialmente, prevedendo scenari da medicina di guerra, paventava delle linee guida per la ‘scelta’ dei pazienti da trattare rispetto ai posti disponibili. Un documento che aveva l’obiettivo di far sentire meno solo il medico e far sì che fosse una scelta quanto più possibile condivisa o collegiale. Oggi sui giornali spesso sentiamo di medici che raccontano di esser costretti a scegliere chi prendere in terapia intensiva e chi no rispetto alle aspettative di guarigione e di vita. Lei che riscontro ha dai suoi colleghi, che può dirci?

Il documento SIAARTI è stato semplificato dai media, ma in realtà rappresenta un documento tecnico molto articolato che richiama in primo luogo ad un concetto sostanziale nella nostra professione, ossia l’appropriatezza delle cure da proporre a ciascun paziente. Si è parlato di selezione, di scelta, dimenticando che – pur con tutte le difficoltà del momento – nessuno è stato lasciato senza cure.

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