Salviamo l’Occidente e la democrazia: a dialogo con Ezio Mauro

by Felice Sblendorio

Nulla sarà come prima: è questa la previsione che tutti fanno sul dopo coronavirus, lo spettro infernale che sta agitando il mondo intero. Dall’economia alla politica, dallo stato di salute dei regimi al dilemma della globalizzazione, passando per la tutela dei diritti, la sicurezza e le varie emergenze sociali. Se nel contagio la paura è naturale ed è conseguente al rischio di morte e ai danni immediati che provocherà un mutamento così dinamico e profondo, la fase post-virus si comincia a caricare di cupa preoccupazione.

Per comprendere il presente e l’immediato futuro delle dinamiche politiche e sociali, con uno sguardo sulla tenuta delle democrazie liberali e del mondo globalizzato, bonculture ha intervistato Ezio Mauro, giornalista e saggista di rango, già direttore di Repubblica e della Stampa.

Direttore, partirei dalle condizioni del nostro Paese nella morsa dell’emergenza coronavirus. Accantonando il dato sanitario, quanto la preoccupa la mutazione economica e sociale che un Paese fragile come il nostro si troverà ad affrontare?

Tanto, perché è una trasformazione di cui non ci rendiamo ancora conto. Il cambiamento, mai così sperimentato, toccherà la nostra vita, i nostri modelli di sviluppo. Nonostante tutto, è l’occasione per reinventare il nostro futuro, per pensare a qualcosa di straordinario, nonostante l’emergenza e i lutti che ci porteremo come un peso. Tutti noi abbiamo visto solo le fotografie, ma c’è una parte del Paese che ha toccato con mano esperienze di dolore, separazione, solitudine. Tutto questo sarà un bagaglio pesantissimo che cambierà profondamente il nostro sentimento nazionale.

Pensa che questo sentimento ne uscirà rafforzato?

Non eravamo consapevoli dell’esistenza di un sentimento nazionale: in questi giorni l’abbiamo recuperato, e quello che verrà dopo verrà ridefinito grazie alla prova che stiamo subendo. Una prova universale perché ha toccato tutti, facendo venir meno le divisioni che ci sono state nel nostro Paese fra il cosiddetto popolo e le cosiddette élite, fra la classe dirigente e il resto d’Italia. Percepire una minaccia comune ha consentito delle risposte da parte dell’opinione pubblica fortemente disciplinate, come forse non ci si aspettava. L’universalità del virus ha compattato la popolazione, facendo scattare una sorta di solidarietà, in una visione ben precisa: siamo tutti sotto attacco, difendiamoci insieme.

Per il Governo Conte il Covid19 è stato, e lo sarà ancora per tanto tempo, uno stress test intensissimo. Crede che il Governo si sia mosso nei tempi giusti?

All’inizio ci sono stati dei ritardi nella percezione della minaccia da parte di tutti, opinione pubblica e classe dirigente. Abbiamo pensato fosse qualcosa di diverso da noi, di esotico, un fatto che non ci potesse toccare. La convinzione che le persone con dei sintomi non fossero contagiose ha spostato il focus degli interventi soltanto sulle persone già dichiaratamente colpite dalla malattia, lasciando gli asintomatici liberi di contagiare indisturbatamente.

Quando ci siamo accorti del pericolo?

Tutto è cominciato con la chiusura delle scuole, quello è il momento. Credo che ci siano state tensioni all’interno del Governo prima di prendere queste prime misure radicali. Le altre democrazie che non avevano la diffusione del virus a livello nostro, all’inizio hanno sottovalutato il pericolo, imitandoci in qualche modo. Noi, oggi, viviamo uno squilibrio mai sperimentato fra un Governo estremamente debole, in termini di identità culturale e sociale, e un accumulo di potere senza precedenti che dovrebbe essere preoccupante proprio per questi motivi.

Quale tipo di potere si esercita in un’emergenza come questa?

È un potere di decisione, ma più ancora un potere di definizione. Il Governo ha la responsabilità di definire la portata, la profondità, l’estensione e la durata della minaccia che abbiamo davanti. Questa responsabilità è stata riconosciuta dall’opinione pubblica, che ha confermato questo potere politico. Il Governo ha cercato di colmare questo squilibrio con una forte esposizione del Presidente del Consiglio, i cui messaggi – anche con qualche errore di comunicazione – hanno risposto alle tensioni della società. Con un metodo trasparente, non so se consapevole o meno, il Governo ha rivelato le decisioni che prendeva di volta in volta, anche correggendosi apertamente. Bisogna tener presente che il virus ha viaggiato, e viaggia ancora, più veloce della democrazia.

È un inseguimento complesso.

Il meccanismo decisionale della democrazia ha inseguito il virus, fino al lockdown totale: la misura zero. Credo che una prima qualità del nostro sistema sia stata la trasparenza, rivelando le difficoltà della classe dirigente nel procedere, le perplessità nel capire, e mostrando il meccanismo decisionale oltre alla decisione. Il secondo punto è stato l’affidamento alla scienza. Non dimentichiamoci che siamo stati, fino a poco tempo fa, il Paese dei novax: oggi quelle credenze sono sparite e si è compreso che la scienza è l’unico driver possibile dell’operazione. Anche la scienza si è trovata di fronte a temi inediti, ma ha creato evidentemente un circuito di fiducia: il sapere ha riconquistato, per il momento, il suo valore. Vivevamo nella società dell’uno vale uno, dove l’ignoranza diventava l’unica virtù perché sintomo di innocenza: sono ignorante, quindi garantisco che sono estraneo alla casta. Questo sapere ha ristabilito una gerarchia oggettiva. Non siamo andati completamente a tentoni perché alla guida c’erano la scienza e la medicina. Nonostante questo, rimangono necessità importantissime: colmare i ritardi digitali, investire sulla ricerca e sulla sanità pubblica che, in momenti del genere, è una colonna portante.

Lei parla di investimenti in sanità, ma la Fondazione Gimbe ha calcolato tagli per quasi 37 miliardi di euro in dieci anni. È possibile continuare a gestire le emergenze all’insegna del miracolo e dell’eccezione?

Nell’emergenza il Sistema Sanitario Nazionale ha retto per due motivi: perché è stato attaccato il Nord, che ha una sanità più forte, e in secondo luogo per il sacrificio personale e del tutto eccezionale di medici e infermieri. Non è un sistema che può durare a lungo, evidentemente. Il welfare negli anni si è tagliato a mani basse, come se la società potesse sopportare un peso simile. Per il liberismo la società non esiste come soggetto libero autonomo, ma esiste quando deve diventare il soggetto su cui scaricare i tagli. Ho sentito dire dal Presidente Macron una frase che la sinistra italiana non è stata capace di dire: il welfare state va sottratto alla logica di mercato. E io aggiungerei: non è una variabile dipendente, ma è una misura che attesta il benessere della civiltà europea.

L’Europa, la grande assente di questa pandemia. Mario Draghi ha implorato di fare tutto il possibile per aiutare gli Stati: è l’ultima chiamata utile per salvare la già fragile tenuta europea?

Il male è già stato fatto. L’Europa dovrà varare le misure necessarie per rispondere a una emergenza economica produttiva, industriale e di consumi familiari. Lo farà, dopo aver già dimostrato una sordità all’esigenza di solidarietà che il coronavirus ha portato a noi. Fin quando si è trattato dell’Italia e della Spagna, è scattata la diffidenza dei Paesi del centro nord dell’Europa che hanno negato misure di solidarietà. Ora credo che saranno costretti a decidersi, ma quel “no” a una richiesta che non pretendeva misure straordinarie singolari ma una revisione globale dei parametri, ha segnato una ferita profonda nel campo degli europeisti.

Il Presidente Prodi ha definito l’Europa come l’ultima àncora della democrazia.

Le democrazie costituzionali sono un insieme di regole che ci diamo da sobri per quando siamo ubriachi. Ma quando ubriaco diventa il sistema, cosa facciamo di quelle regole? Quando il sistema vacilla quelle regole funzionano? Sono sufficienti? Le democrazie sono una difesa importante se rispettano il metodo democratico, il sistema di controlli, la garanzia che misure eccezionali valgono finchè la situazione rimane eccezionale. Questo potere, che si accumula fuori dalle regole tradizionali perché c’è un’emergenza che lo richiede, deve continuamente porsi nuovi limiti: di controllo, di tempo, di coinvolgimento delle opposizioni. Nuovi poteri chiedono nuovi limiti. La grande fortuna che ancora possediamo è l’elasticità della nostra democrazia. Meccanismi di potere più populisti o nazionalisti, come quello che in queste ore sta realizzando Orbán, preoccupano per una futura erosione di questa elasticità del sistema: una volta mutate, le regole restano deformate.

In opposizione alla democrazia c’è il modello cinese che, per molti, è sinonimo di efficienza, puntualità. Quando affidiamo i nostri corpi, i nostri spazi fisici e la nostra libertà nelle mani dell’autorità politica è possibile guardare a pratiche di sorveglianza così invasive?

Il Presidente Trump parla dell’economia americana come della più grande economia del mondo, ma non è più così. Se guardassimo le prime dieci banche e le prime dieci imprese del mondo, vedremmo che sono quelle cinesi a dominare. C’è una grande parte di opinione pubblica occidentale che non ha la percezione esatta di quello che oggi rappresenta, economicamente parlando, la Cina nel mondo. Tradurre tutto questo potere economico in un modello politico, però, è una cosa sciagurata, inconcepibile. Quello che noi salutiamo con ammirazione avviene in un sistema dittatoriale con un’opinione pubblica che non conta nulla, un pluralismo politico limitato, uno sviluppo possibile solamente dentro determinate strettoie. Sul coronavirus non sappiamo davvero se i dati siano affidabili. Guardare a quel modello, anche nelle emergenze, è limitante perché ammiriamo un sistema politico bloccato con un’economia aperta. Ma che modello è?

Dopo questo virus che ha messo in crisi il grande sistema della globalizzazione, saremo in grado di costruirne una nuova?

Non c’è nessuno che ha pensato a un modello di sviluppo diverso dopo il crollo della bolla finanziaria del 2008. Il liberismo, l’ideologia che ci ha portati alla crisi, è l’unica sopravvissuta. È un paradosso, perché nessuno ha messo in campo un’ipotesi controcorrente, un’obiezione culturale. Bisogna ripensare a un sistema che non si regga su una crescita basata su disuguaglianze fortissime. La base dei populisti che stanno erodendo la democrazia occidentale è questa: il sistema di disuguaglianze diventate esclusioni. La democrazia può fare i conti con le disuguaglianze, e a questo ci pensa la politica, ma non può reggere le esclusioni. Ma se la politica non riesce a limitare queste esclusioni il problema è proprio la democrazia, perché non funziona. Queste persone potrebbero dire: “Cara democrazia, sei l’insieme di buoni principi, ma vali solo per i garantiti”. Questo punto è decisivo.

Infatti, vincono leader populisti che offrono una protezione.

Esattamente come ha fatto Trump: nelle sue prime dichiarazioni dopo la vittoria elettorale non ha ringraziato nessuno, tranne lui, il forgotten man. Ha detto agli esclusi: da oggi non sarete più dimenticati, da oggi entrerete con me alla Casa Bianca. Lasciando da parte il paradosso di un miliardario conservatore che fa questo discorso, Trump ha saputo convincerli, individuarli, parlarci. Io penso al salto sulla sedia che avranno fatto tutte queste persone. Me le immagino come personaggi di Hopper seduti a un tavolo da bar, da soli, intenti a fare i conti con le delusioni e un risentimento sociale accumulato, come una cambiale in bianco nei confronti dello Stato che si considera enorme e non esigibile. Il populismo riduce tutto e dice: punto tutto su di te, diamo un calcio al sistema.

Nel Sud dell’Italia la situazione di marginalità è simile. Crede che sia a rischio la tenuta sociale del Paese?

Ora ci siamo accorti di tutte quelle persone che si devono inventare la giornata per mangiare. È gente tagliata fuori dal sistema: per ora, nonostante pochi episodi, la tenuta sociale sta reggendo, ma bisogna ovviamente considerare la durata. I dati ci parlano di scenari migliori, ma attualmente non siamo nelle condizioni di misurare l’effetto psicologico duraturo che avrà su di noi questo virus. Ecco perché la tenuta della democrazia sarà importantissima. Gli errori commessi, considerando una pandemia complessa da gestire, verranno valutati dopo. Ora si deve tutelare la tensione fra sicurezza e libertà. Il pendolo, da sempre nella storia dello Stato moderno, oscilla fra questi due poli opposti. Oggi, più di ieri, serve più democrazia perché abbiamo venduto una nostra quota di libertà allo Stato affinché risponda in termini di sicurezza comune.

Le epidemie creano automaticamente un nemico: quando finirà tutto questo, avremo un mondo più chiuso? Rischiamo una recessione democratica?

Ne sono convinto da tempo: il sistema liberaldemocratico è in minoranza anche nel nostro mondo occidentale. Il rischio è che vada in crisi il concetto di democrazia e di Occidente. Trump e Putin, per diverse ragioni e in modalità differenti, tengono a depotenziare l’Europa, e quindi la democrazia, le istituzioni e i diritti conquistati. Oggi nessuno l’attacca frontalmente, ma c’è tutto un sistema di democrature che abbattono le mille pastoie della democrazia. Se questa sfida ci farà perdere la democrazia liberare e l’Occidente così come lo abbiamo conosciuto, entreremo in una terra di mezzo: definitivamente incognita.

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