Achille, Sigfrido, Baldr e il paradosso della invulnerabilità

by Enrico Ciccarelli

I miti del mondo classico e quelli norreni (ma anche quelli di culture più remote) presentano molte storie basate sull’invulnerabilità, sul prodigio o la grazia che certuni ricevono di non poter essere attinti da ferite o colpi. In un mondo dominato da armi bianche e da taglio, l’invulnerabilità si configurava soprattutto come impossibilità di essere penetrati o colpiti: ed era infrequente persino per i Numi Immortali. Omero narra che Diomede, nelle sanguinose mischie nella piana di Troia, colpisce sia l’inguine di Ares che la mano di Afrodite. Ma il più celebre degli invulnerabili, il Dio della benevolenza Baldr (o Balder o Baldur) è per l’appunto un figlio di Odino e Frigg, uno degli Aesir, gli Dei del Valhalla.

Forse della storia avrete sentito parlare: inquieto per sogni che gli fanno presagire una morte imminente, questo dio leggiadro e amatissimo ne parla ai suoi genitori, e la madre Frigg fa giurare a tutte le cose esistenti che non nuoceranno a Baldr. Sì che diventa passatempo quotidiano della dimora degli Dei tirare addosso al dio gentile e benevolo ogni sorta di oggetto o lama o punta. Ma il malvagio Loki riesce a scoprire che il vischio è stato dimenticato e non ha partecipato al giuramento, sicché porge un rametto di questa pianta, innocua per tutti e letale per il solo Baldr, al dio cieco Hoor, che inconsapevole lo scaglia contro il nume beneamato, uccidendolo all’istante.
Perché l’invulnerabiità postula un’eccezione, un’insidia, una nemesi: quando Sigurd-Sigfrido si bagna del sangue del drago Fafnir da lui ucciso, che conferisce l’invulnerabilità, una fogliolina perfida gli si poggia sulla schiena, togliendo immunità a una piccola parte del suo corpo, là dove Hagen affonderà la spada al momento in cui lo assassinerà (con l’inconsapevole complicità della moglie di Sigfrido, Crimilde).
La più famosa di queste debolezze degli invulnerabili, di queste kryptoniti ante litteram, è naturalmente il tallone d’Achille: quando la nereide Teti, immerge il proprio figlioletto nelle acque dello Stige per renderlo impenetrabile, la mano che lo tiene per il tallone lascia privo di protezione il calcagno, dove colpirà la freccia di Paride, guidata dal potere di Apollo.
In realtà, benché la morte di Achille per mano del principe troiano e del dio sia profetizzata da Ettore morente, nell’Iliade Omero non parla mai di un Achille invulnerabile. La tradizione mitica risale al poema Achilleide, scritto da Publio Papinio Stazio intorno al 95 dopo Cristo, di cui ci sono pervenuti solo pochi frammenti. Anche qui l’invulnerabilità ha un punto debole, una nemesi che ne corregga l’empietà.

Perché rendersi impenetrabili al mondo, nel sistema valoriale dei miti, è intollerabile hybris, sia per i mortali che per i Perenni. L’arroganza di farsi immuni alle ferite è vana e degna di punizione. La sorte si preoccupa di castigare chi ha cercato di sottrarsi ad essa: né il mortale Edipo, che realizza la profezia che lo riguarda cercando di sfuggirle, né la ninfa Calipso che nell’isola di Ogigia sottrae Ulisse al corso del tempo, né il semidio Achille possono sfuggirle.
Il mito sembra suggerire il paradosso che l’invulnerabilità si ottenga nel modo esattamente contrario: non sottraendosi e rendendosi ermetici e tetragoni, ma al contrario offrendosi, contaminandosi, lasciandosi attraversare. Si tratta forse di assumere su di sé tutte le ferite del tempo e del destino; celando però nella propria anima un nucleo segreto e protetto, di sostanza immutabile e invincibile che lasci ogni lacerazione o piaga o ferita al di qua della linea della distruzione.

Esistono eroi del genere? Sì, benché rari. Assomigliano a ciascuna delle loro cicatrici, ma non corrispondono a nessuna di esse; ogni loro lacrima è destinata a divenire rugiada, ogni loro dolore a farsi seme. Se avete la ventura di incontrarne, trattenete il respiro: perché vi è stato regalato un piccolo spiraglio, un casuale buco di serratura da cui potete scrutare la vita nel suo senso profondo, lontano dal cicaleccio e dal frastuono di quelli che si sentono vincenti e invulnerabili e sono solo aridi, compiaciuti e stolti.

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