Cani e altri miracoli. Tre poesie di pelosa bellezza

by Enrico Ciccarelli

Fra le molte fortune della mia vita c’è quella di avere posseduto un cane. Per la verità, come è normale parlando d’amore, farei fatica a dire se l’abbia posseduta (era una cagnetta meticcia di nome India) o non mi abbia piuttosto posseduto lei, in quel modo che a nullo amato amar perdona di cui parla quel tizio.  Come che sia, gli anni trascorsi con lei sono stati di arricchimento e di completezza, secondo un’esperienza che penso possa essere confermata da chiunque l’abbia condivisa. Sono ridicolmente convinto che, ove ci sia una vita oltre la morte, e nell’improbabile e un po’ terrificante ipotesi che essa consista in un prolungamento delle nostre esistenze individuali, farò fatica a farmi dare attenzione dai miei parenti e congiunti o dagli amici che mi hanno preceduto: un luogo di arrivi senza partenze sarà probabilmente piuttosto indaffarato. Ma lei sarà ad attendermi, con quel misto di gioia e di trepidazione che la volpe del Piccolo Principe ha eternato per tutti noi. Il miracolo dei cani e dei gatti (ma probabilmente anche dei cavalli, dei pitoni, degli iguana e di altri animali che abbiamo nel corso dei secoli addomesticato come specie o come individui) sta in questo compiuto dominio dell’emozione, di essere uno scampolo di Assoluto e di Permanente che contraddice l’intima precarietà dell’esistere. È cosa diversa dalla semplice, spontanea tenerezza che ci coglie di fronte a quei musetti simpatici e a quel pelo morbido. Vi auguro di provarla.

Di sicuro la provò Lord Byron, prototipo di eroe e poeta romantico, forse il primo personaggio che intese fare della propria vita un’opera d’arte. Uomo di appetiti smodati, bisessuale e d’indole avventurosa, amò molto, molte e molti, seminando uno scandalo tale che al suo funerale londinese i Lord suoi pari inviarono a seguire il feretro le loro carrozze rigorosamente vuote. Nelle sue liriche (fu chiamato il Napoleone delle rime) si alternano epos e sentimento, elegia ed invettiva. A lui si deve questo

EPITAFFIO PER IL SUO CANE

In questo luogo
giacciono i resti di una creatura
che possedette la bellezza
ma non la vanità,
la forza ma non l’arroganza,
il coraggio ma non la ferocia.
E tutte le virtù dell’uomo
senza i suoi vizi.
Quest’elogio, che non sarebbe che vuota lusinga
sulle ceneri di un uomo,
è un omaggio affatto doveroso alla memoria di
“Boatswain” , un cane che naque in Terranova
nel maggio del 1803
e morì a Newstead Abbey
il 18 novembre 1808.
Quando un fiero figlio dell’uomo
al seno della terra fa ritorno,
sconosciuto alla gloria, ma sorretto
da nobili natali,
lo scultore si prodiga a mostrare
il simulacro vuoto del dolore,
e urne istoriate ci rammentano
l’uomo che giace lì sepolto;
e quando ogni cosa si è compiuta
sul sepolcro noi potremo leggere
non chi fu quell’uomo,
ma chi doveva essere.
Ma il misero cane, l’amico più caro in vita,
che per primo saluta
e che difende ultimo,
che lotta, respira,
vive e fatica per lui solo,
cade senza onori;
e solo col silenzio
è premiato il suo valore;
e l’anima che fu sua su questa terra
gli vien negata in cielo;
mentre l’uomo, insetto vano,
spera il perdono, e per sé solo
pretende un paradiso intero.
O uomo! flebile inquilino della terra per un’ora,
abietto in servitù, corrotto dal potere,
ti fugge con disgusto chi ti conosce bene,
o vile massa di polvere animata!
L’amore in te è lussuria, l’amicizia truffa,
la parola inganno, il sorriso menzogna!
Vile per natura, nobile sol di nome,
ogni animale ti mette alla vergogna.
O tu, che per caso guardi quest’umile sepolcro,
passa e va’: non è in onore
di creatura degna del tuo pianto.
Esso fu innalzato per segnare
il luogo ove tutto quel che di un amico resta
riposa in pace;
uno sol ne conobbi: e qui si giace.

Capita spesso, e penso che Byron sia l’esempio più illustre, che si sia indotti alla misantropia proprio dall’amore per i cani, e dal confronto fra essi e i nostri simili. Comunque i nostri amici sono stati cantati anche con accenti diversi dallo sturm und drang del vecchio George. Un insospettato tributo alla pelosa bellezza a quattro zampe, viene nientepopodimenoche da Eugenio Montale. È una tarda lirica, del Quaderno di quattro anni, l’ultima silloge uscita lui vivo. Il poeta, ormai ottuagenario, segue da tempo la formula diaristica, con un andamento più quotidiano e apparentemente semplice delle sue leggendarie e intricate prove precedenti. È in questo contesto che compare il cagnetto Galiffa, bastardino di lunghe orecchie.

NEI MIEI PRIMI ANNI ABITAVO

Nei miei primi anni abitavo al terzo piano
e dal fondo del viale di pitòsfori
il cagnetto Galiffa mi vedeva
e a grandi salti dalla scala a chiocciola
mi raggiungeva. Ora non ricordo
se morì in casa nostra e se fu seppellito
e dove e quando. Nella memoria resta
solo quel balzo e quel guaito né
molto di più rimane dei grandi amori
quando non siano disperazione e morte.
Ma questo non fu il caso del bastardino
di lunghe orecchie che portava un nome
inventato dal figlio del fattore
mio coetaneo e analfabeta, vivo
meno del cane, e strano, nella mia insonnia.

Rimane poco dei grandi amori, quando non siano disperazione e morte. Qui Montale schiude un mistero che molte vite e molti poeti d’Occidente non basterebbero a spiegare: la felicità è tenue, non segna, non lascia le cicatrici del dolore. Forse è per questo che la dissipiamo. Ma la nostra trilogia poetica sui cani deve concludersi in toni più giocosi. Ecco Gianni Rodari, che scherza sulla c aspirata dei fiorentini.

IL POVERO ANE

Se andrete a Firenze
vedrete certamente
quel povero ane
di cui parla la gente.
È un cane senza testa,
povera bestia.
Davvero non si sa
ad abbaiare come fa.
La testa, si dice,
gliel’hanno mangiata…
(La “c” per i fiorentini
è pietanza prelibata).
Ma lui non si lamenta,
è un caro cucciolone,
scodinzola e fa festa
a tutte le persone.
Come mangia? Signori,
non stiamo ad indagare:
ci sono tante maniere
di tirare a campare.
Vivere senza testa
non è il peggior dei guai:
tanta gente ce l’ha,
ma non l’adopera mai!

Ci fermiamo qui, sperando che anche queste letture vi abbiano aiutato ad adoperarla, la testa. Domenica prossima parleremo dei gatti, legati meno profondamente dei cani all’uomo, ma più saldamente alla divinità, come attestano i simulacri della Dea Bastit. Se avete dei cani o dei gatti fate loro una carezza da parte mia.

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