Come si consuma la mia luce

by Enrico Ciccarelli

Una fastidiosissima retinopatia diabetica ha crudelmente abbassato la mia vista, di suo affaticata da un diuturno rapporto con schermi luminosi come questo su cui si formano le mie parole. Questo aggiunge refusi agli strafalcioni della mia ignoranza e soprattutto, anche con gli occhiali, mi rende faticosissimo leggere.

Spero naturalmente di riuscire a venire a capo di questo disagio e di non diventare cieco. Ma non ho potuto fare a meno di riflettere sui rapporti assai stretti fra il vedere e la poesia, che spaziano dal cieco Omero all’orbo veggente D’Annunzio al sommo Jorge Luis Borges, il cui glaucoma si aggravò in contemporanea alla sua nomina a direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires (“la cecità, donatami insieme a ottocentomila volumi, dalla finissima ironia di Dio”). Un tòpos letterario collegato all’idea che la perdita della vista corrisponda all’acquisto di un superiore sapere, libero dalle apparenze e dagli inganni del mondo sensibile. In realtà vedere, immaginare e pensare sono le punte di un unico oggetto tricuspide: non per caso “idea” viene da una delle radici (èidon) del multiforme verbo greco orào. Vediamo pensando e pensiamo vedendo, ma è antica l’idea che smettendo di vedere si abbia maggiore acume e consapevolezza. Non per caso Tiresia, archetipo degli indovini era cieco, e non per caso Wotan-Odino, lo Zeus delle cosmogonie norrene, sacrifica il proprio occhio al Grande Frassino Yggdrasill per potersi abbeverare alla fonte della saggezza. Ed è particolarmente dolce e intrigante la tradizione che vuole la cecità di Omero causata dall’aver egli posto lo sguardo sull’abbacinante scudo forgiato da Efesto per Achille. Accecato da un’immagine che egli stesso aveva creato e cantato. E ciascuno di noi sa, o almeno i più fortunati, che spesso si diventa ciechi per un’immagine (di uomo, di donna, di felicità) che in realtà è esistita solo nella nostra mente.

Ma veniamo alla poesia: direi che è d’obbligo partire da John Milton, l’autore del Paradiso Perduto, che nel 1673 scrive il sonetto On his blindness. Ecco l’unica traduzione che ne ho trovato:

SULLA SUA CECITA’

Quando considero come si consuma la mia luce,

Prima della metà dei miei giorni, in questo mondo oscuro e vasto,

E quell’unico Talento che è la morte da nascondere

Alloggiato con me inutile, sebbene la mia Anima fosse più piegata

Per servirlo con il mio Creatore e presentare

Il mio vero conto, per timore che lui ricambiasse

“Dio ha esatto lavoro quotidiano, luce negata?”

Chiedo affettuosamente. Ma pazienza, per prevenireQuel mormorio, presto risponde: “Dio non ha bisogno

O il lavoro dell’uomo o i suoi doni; chi è il migliore

Portate il suo giogo mite, lo servono al meglio. Il suo stato

È regale: migliaia alla sua velocità di offerta,

E posta sulla terra e sull’oceano senza sosta;

Servono anche chi sta solo ad aspettare “.

Con un balzo di alcuni secoli giungiamo a Giovanni Pascoli e dal suo Il fringuello cieco, una lirica dei Canti di Castelvecchio in cui questo genio assoluto del poetare gioca in modo magistrale con le onomatopee, con una lirica che in qualche modo prelude al Futurismo (solo negli ardimenti linguistici). Ecco i suoi cinguettanti versi

IL FRINGUELLO CIECO

Finch… finché nel cielo volai,

finch… finch’ebbi il nido sul moro,

c’era un lume, lassù, in ma’ mai,

un gran lume di fuoco e d’oro,

che andava sul cielo canoro,

spariva in un tacito oblìo…

Il sole!… Ogni alba nella macchia,

ogni mattina per il brolo,

– Ci sarà? – chiedea la cornacchia;

– Non c’è più! – gemea l’assiuolo;

e cantava già l’usignolo:

– Addio, addio dio dio dio dio… –

Ma la lodola su dal grano

saliva a vedere ove fosse.

Lo vedeva lontan lontano

con le belle nuvole rosse.

E, scesa al solco donde mosse,

trillava: – C’è, c’è, lode a Dio! –

“Finch… finché non vedo, non credo”

però dicevo a quando a quando.

Il merlo fischiava – Io lo vedo -;

l’usignolo zittìa spiando.

Poi cantava gracile e blando:

– Anch’io anch’io chio chio chio chio… –

Ma il dì ch’io persi cieli e nidi,

ahimè che fu vero, e s’è spento!

Sentii gli occhi pungermi, e vidi

che s’annerava lento lento.

Ed ora perciò mi risento:

– O sol sol sol sol… sole mio? –

Per ragioni di continenza vi risparmio la celeberrima e sublime “Ho sceso, dandoti il braccio” di Eugenio Montale che sulla quasi cecità di Drusilla Tanzi ha istoriato la più bella dichiarazione d’amore mai scritta. Ma non si può non concludere con il già menzionato Borges, che trovò la vetta forse più alta della sua rilevante produzione poetica con “Elogio dell’ombra”, forse la sua silloge più famosa con il “Poema Conjectural”, il “Carme presunto”. Ecco la poesia che dà il titolo alla raccolta.

ELOGIO DELL’OMBRA

La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno)

può essere per noi il tempo più felice.

È morto l’animale o quasi è morto.

Vivo tra forme luminose e vaghe

che ancora non son tenebra.

Buenos Aires,

che un tempo si lacerava in sobborghi

verso la pianura incessante,

è di nuovo la Recoleta, il Retiro,

le confuse strade dell’Undici

e le precarie case vecchie

che seguitiamo a chiamare il Sud.

Nella mia vita son sempre state troppe le cose;

Democrito di Abder si strappò gli occhi per pensare;

il tempo è stato il mio Democrito.

Questa penombra è lenta e non fa male;

scorre per un mite pendio

e somiglia all’eterno.

Gli amici miei non hanno volto,

le donne son quello che furono in anni lontani,

i cantoni sono gli stessi ed altri,

non hanno lettere i fogli dei libri.

Dovrebbe impaurirmi tutto questo

e invece è una dolcezza, un ritornare.

Delle generazioni di testi che ha la terra

non ne avrò letti che alcuni,

quelli che leggo ancora nel ricordo,

che rileggo e trasformo.

Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest

convergono le vie che han condotto

al mio centro segreto.

Vie che furono già echi e passi,

donne, uomini, agonie e risorgere,

giorni con notti,

sogni e immagini del dormiveglia,

ogni minimo istante dello ieri

e degli ieri del mondo,

la salda spada del danese e la luna del persiano,

gli atti dei morti,

l’amore condiviso, le parole,

ed Emerson, la neve, e quanto ancora.

Posso infine scordare. Giugno al centro,

alla mia chiave, all’algebra,

al mio specchio.

Presto saprò chi sono.

Lo sapremo tutti, amiche e amici miei, presto o tardi che sia. Ma forse è ancora più importante sapere chi e cosa è intorno a noi. Ciò che dimentichiamo, che trascuriamo, che lasciamo andare. Lo sforzo, ci si veda o no, è di scongiurare la terribile sentenza di José Saramago in “Cecità”: Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che non vedono; ciechi che, pur vedendo, non vedono.” Di nuovo buona domenica

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