“Io mi sento vivere quando tu mi fai male”: il dolore e le sue questioni capitali

by Enrico Ciccarelli

Buona domenica, amiche e amici carissimi. La nostra gita poetica domenicale ci porta a far visita al dolore. Da un punto di vista tecnico il dolore è uno dei due grandi sistemi nocicettivi (l’altro è la paura); come l’altro funziona malissimo. Un cancro può crescere all’interno del nostro organismo in modo quasi inavvertito fino a quando non divenga letale senza speranza e un trascurabile foruncolo può diventare insopportabile. In ogni caso, questa «Sensazione penosa, diffusa o localizzata, susseguente alla stimolazione di particolari ricettori sensitivi da parte di agenti di varia natura e intensità» (prima definizione di Oxford Languages) è poca cosa paragonato a «Stato o motivo di sofferenza spirituale, specialmente se provocata da una realtà ineluttabile che colpisce o condiziona duramente il corso della vita» (seconda definizione).

Mentre del primo conosciamo le diverse gradazioni e i picchi di intensità (l’infarto, il parto, la pulpite dentaria), del secondo, di questa sofferenza spirituale autoinflitta, sappiamo dire pochissimo. È per questo che come sempre ci rivolgiamo ai poeti, che sono lì apposta per dirci qualcosa su fenomeni che da soli non riusciremmo a capire.

Una rassegna che non avrà pretese esaustive. Troppo vasto l’oceano del dolore cantato dai poeti per esplorarlo in poche righe. D’altronde una delle prime questioni capitali è stabilire se il dolore non sia in qualche modo consustanziale alla poesia, se abbia ragione Omero quando afferma nell’Odissea che «gli Dei intessono sventure perché alle generazioni nuove non manchi materia di canto». Parlare del dolore lo mitiga? Ugolino della Gherardesca non sembra pensarla così, visto che alla curiosità di Dante risponde: «Tu vuo’ ch’io rinnovelli/disperato dolor che il cor mi preme/giù pur pensando, pria ch’io ne favelli».

Nell’esperienza comune, però, condividere un dolore e le sue ragioni rappresenta quasi sempre un sollievo. E il dolore, talora presente anche in forma d’orrore, può essere una potente forza di slancio dell’esistenza. Così, per esempio, in una celebre poesia di Ungaretti, scritta –ci dice lui stesso- l’antivigilia di Natale del 1915

VEGLIA

Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congrestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

Non si può parlare di dolore in poesia senza accennare a Sergio Corazzini, rapida meteora (morì di tisi a soli ventun anni, dopo una vita di improvvise ristrettezze economiche) del crepuscolarismo. Ecco la sua

LA MORTE DI TANTALO

Noi sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro.
Sedemmo lacrimosi in silenzio.
Le palpebre della mia dolce amica
si gonfiavano dietro le lagrime
come due vele
dietro una leggera brezza marina.

Il nostro dolore non era dolore d’amore
né dolore di nostalgia
né dolore carnale.
Noi morivamo tutti i giorni
cercando una causa divina
il mio dolce bene ed io.

Ma quel giorno già vania
e la causa della nostra morte
non era stata rinvenuta.

E calò la sera su la vigna d’oro
e tanto essa era oscura
che alle nostre anime apparve
una nevicata di stelle.

Assaporammo tutta la notte
i meravigliosi grappoli.

Bevemmo l’acqua d’oro,
e l’alba ci trovo’ seduti
sull’orlo della fontana
nella vigna non più d’oro.

O dolce mio amore,
confessa al viandante
che non abbiamo saputo morire
negandoci il frutto saporoso
e l’acqua d’oro, come la luna.

E aggiungi che non morremo piu’
e che andremo per la vita
errando per sempre.

Sì, non era decisamente un allegrone (raramente i poeti lo sono). Ma in questa lirica trovate la più conosciuta delle connessioni con il dolore: quella con l’amore. L’amore di cui parla la sublime Marina Cvetaeva

L’AMORE

L’amore

è lama? è fuoco?

Più quietamente – perché tanta enfasi?

È dolore che è conosciuto come

gli occhi conoscono il palmo della mano

come le labbra sanno

del proprio figlio il nome.

Passione e patimento hanno radici simili. E l’esperto del ramo Pedro Salinas, ne «La voce a te dovuta» ne attesta l’omologazione.

NON VOGLIO CHE TI ALLONTANI

Non voglio che ti allontani,
dolore, ultima forma
di amare. Io mi sento vivere
quando tu mi fai male
non in te, né qui, più oltre:
sulla terra, nell’anno
da dove vieni
nell’amore con lei
e tutto ciò che fu.
In quella realtà
sommersa che nega se stessa
ed ostinatamente afferma
di non essere esistita mai,
d’essere stata nient’altro
che un mio pretesto per vivere.
Se tu non mi restassi,
dolore, irrefutabile,
io potrei anche crederlo;
ma mi rimani tu.
La tua verità mi assicura
che niente fu menzogna.
E fino a quando ti potrò sentire,
sarai per me, dolore,
la prova di un’altra vita
in cui non mi dolevi.
La grande prova, lontano,
che è esistita, che esiste,
che mi ha amato, sì,
che la sto amando ancora.

Incantevole, vero? E verissima. Diamo tributo agli amori che non esistono più per cercare di fare in modo che esistano ancora, in qualche forma fantasmatica o chimerica. E per soddisfare la mia vanità personale vi riporto la mia remota personale versione di come il dolore permanga molto oltre le persone e il loro disparire.

TRADUZIONI

“Ciao, come stai?” ti ha chiesto.

E tu volevi dirle:

“Sono lungo il cammino,

nell’infinitamente desolato

spazio dove non sei;

sto nei giorni di ferro

che sono eredità della tua assenza;

penso, seduto a riva,

alla marea di te che si è ritratta

e aspetto che ritorni;

guardo come a un prodigio

ai germogli, alle gemme

nell’anima mia inaridita,

e lodo e maledico

questa vita tenace

che svelle i chiodi e cura le ferite

e non mi lascia al tempo immaginato

di quando tu non eri andata via.”

Tutto ciò era da dire, e fu tradotto:

“Io bene, grazie; e tu?”.

Per il momento ci fermiamo qui. Il fiume della poesia ha infiniti ruscelli, e io vi invito a cercare i vostri, quelli che più si confanno alle vostre emozioni. Perché ci commuoviamo per Paolo e Francesca, e per Giulietta e Romeo, e per Alfredo e Violetta perché sappiamo di essere loro. Perché –ditemi- chi non si è mai innamorato di quella del primo banco, la più carina, la più cretina –cretino tu-?

Se ci è arrivato un pianista di piano-bar… Buona domenica, e sia ogni vostra inevitabile lacrima la goccia di rugiada di cui i nuovi fiori avranno bisogno.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.