La lezione afghana e la democrazia formato export

by Enrico Ciccarelli

La vicenda afghana, con le sue atrocità e le sue ambivalenze, ha ridato fiato alla mai sopita discussione sulle colpe dell’Occidente e sul collegato tema dell’esportabilità della democrazia. Anche il mio precedente articolo su Bonculture, nel quale parlavo del primato dell’Occidente e della necessità di riaffermarlo attraverso una rilegittimazione morale (la sospensione dei brevetti e la concessione delle licenze di fabbricazione dei vaccini sarebbero lo strumento ideale), ha destato nel suo piccolo qualche perplessità e qualche critica, naturalmente bene accetta.

A mio parere è sempre positivo cercare di riflettere sul senso della storia, e anche ripensare criticamente il concetto di “civiltà”. Sarebbe interessante, ad esempio, indagare il rapporto fra le religioni monoteiste e le radici giudaico-cristiane della civiltà occidentale e l’atteggiamento predatorio nei confronti delle risorse naturali e ambientali. Quel modello di sviluppo (che, a scanso di equivoci, è seguito e peggiorato con dedizione sia dalla Cina che dall’India, dove il monoteismo non è di casa) è probabilmente legato all’idea stessa di un Demiurgo, di un Dio che ha posto la Creazione al servizio dell’uomo.

Ma in una prospettiva meno filosofica e maggiormente attenta al corso della storia, è interessante riflettere sulle vicende che cinque secoli e mezzo fa, grosso modo, hanno segnato il declino delle civiltà orientali e l’avvento e la supremazia di quella occidentale. Uno snodo che è stato diretta conseguenza di una asimmetria di segno opposto. Mentre in Cina l’avvento della dinastia Ming e l’estinguersi del dominio mongolo determina (o corrisponde a) un’autentica esplosione demografica, l’Europa coeva vede la sua popolazione sterminata dalla peste nera. Fernand Braudel, il nume della storia del XX Secolo, ha spiegato bene come l’abbondanza di forza lavoro umana, tipica delle società al riparo dalla carestia, determini il rallentamento, l’abbandono o l’imperfetta evoluzione della tecnologia.
Così, mentre il civilissimo Celeste Impero produce invenzioni in quantità e le utilizza in modo ludico o semiludico, l’Occidente immiserito ed avido se ne impossessa e le perfeziona. Si tratti della stampa a caratteri mobili o della bussola o della polvere da sparo, l’Europa famelica e assetata ne fa lievito. Per cose buone, come la diffusione ampia della cultura, che in Cina rimane appannaggio dei mandarini, e meno buone, come le guerre e gli assedi.
L’Italia dell’Umanesimo, con le sue Repubbliche marinare e con le prime banche d’Occidente, è il luogo privilegiato di questo cambio di passo, di questo prodigio della miseria. E mentre il diritto comune europeo sviluppa la società in accomandita, per consentire ai nobili di arricchirsi senza darsi alla disdicevole pratica del commercio, la Cina, dominata dall’avversione confuciana all’intrapresa, chiude intorno al 1450 l’attività di esplorazione delle sue flotte.
È questo cambio d’epoca che ribalta i rapporti di forza planetari. L’Europa, con le sue caravelle di Colombo, le spedizioni dei conquistadores, i navigatori francesi e britannici e portoghesi, conquista il Nuovo Mondo, le Indie Occidentali, l’immensa America. Una conquista che cambierà per sempre l’Europa stessa, che ne modificherà le diete, gli usi, le credenze, e -dopo quasi tre secoli- i regimi. Perché, anche se la democrazia giunge davvero nel fatale 14 luglio della Bastiglia e si consolida sulle note della Marsigliese e si diffonde con le cannonate di Napoleone, la sua data di nascita è il 18 dicembre del 1773, quando i Sons of Liberty buttarono a mare le casse di tè nel porto di Boston come protesta contro la rapacità fiscale di Re Giorgio.
Quel modello di democrazia liberal-borghese ha esercitato una durevole egemonia fino ai giorni nostri. Per la potenza di fuoco delle cannoniere che umiliarono la Cina con le guerre dell’oppio? Per le “navi nere” del commodoro Perry, che nel 1854 imposero al Giappone di aprirsi ai commerci? Certo. Ma soprattutto perché quel modello, con i suoi corollari (lo Stato di diritto, la libertà della scienza, e dei culti, l’uguaglianza e la fraternità, il diritto alla ricerca della felicità) appariva più idoneo di altri a rispondere ai bisogni e alle aspirazioni degli individui e delle comunità. E le alternative, dalla Repubblica dei Sovieti fino alla Jamahirya di Muammar Gheddafi, palesavano presto limiti e guasti insuperabili, giustificando la celebre massima di Churchill: “La democrazia è il peggiore dei sistemi di governo, eccettuati tutti gli altri.”

È esportabile? Certo che sì. È un’ingenuità credere che lo si possa fare a colpi di bacchetta magica o di baionetta, proprio come è stato ingenuo credere che le entità statali costruite sui resti dell’Impero Ottomano in Medio Oriente potessero diventare Stati nazionali. Ma resta il valore planetario della democrazia rappresentativa e dei suoi addentellati, fra i quali il costante processo di autorevisione critica, l’attitudine a vedere un’opportunità dove altri vedono un rischio, la fiducia nell’evoluzione e nell’innovazione. Ma credere che questo modello di democrazia sia “inadatto” ad alcune culture o praticare lo storicismo d’accatto secondo il quale la transizione alla democrazia in Afghanistan passi necessariamente per un regime talebano è risibile o –peggio- criptorazzista.
La verità è che noi dubitiamo dell’esportabilità della democrazia perché dubitiamo della democrazia in sé. Perché il sazio e invecchiato Occidente pratica un costante dileggio dei propri Parlamenti, li vitupera con scelte demenziali, eccita e aizza contro di loro tutte le insicurezze, le nevrosi e le patologie tipiche della senescenza. Le ansie securitarie favoriscono le democrazie illiberali e autoritarie, quasi sempre confortate da grande consenso di popolo. Da sempre l’argomento principale contro le democrazie è la loro debolezza. Eppure basterebbe ricordarsi di un racconto di stretta attualità: “Le rane chiedono un re”, narrato da un tale Esopo intorno alla metà del quinto secolo avanti Cristo.

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