La Roccia e la Pantera. Un epicedio per Burgnich

by Enrico Ciccarelli

Tarcisio Burgnich, la Roccia di Ruda, è stato mandato negli spogliatoi dal triplice fischio dell’Arbitro poco dopo avere compiuto gli 82 anni di una vita ricca di glorie e trionfi, ma anche di fatica e sacrificio, com’è d’uso per la dura razza furlana di cui era orgoglioso campione.

Campione grandissimo, in quel calcio degli anni Sessanta eroico e dimenticato, in cui le uniche notizie te le davano Enrico Ameri e Sandro Ciotti alla radio, e a sera tarda Enzo Tortora o Alfredo Pigna alla Domenica Sportiva. Tarcisio è parte della Banda dei Quattro di Helenio Herrera, in quella formidabile Inter di Angelo Moratti. Davanti a Giuliano Sarti, ci sono lui, Armando Picchi, Aristide Guarneri e Giacinto Facchetti. Gli attori di un catenaccio durissimo, che i lanci di Luisito Suarez e la velocità di Jair e Sandrino Mazzola trasformavano in poderose ripartente.

Tarcisio, a differenza dell’olimpio, biondo e fascinoso Facchetti, è un tracagnotto dall’aria scontenta e di rari sorrisi, proprio come il livornese Picchi; lui non tesse, non ricama, non dribbla: è in sala macchine a sgobbare. Per lui niente sortite (spettano al fluidificante); l’area avversaria la vede solo al tempo successivo, quando diventa la sua. Il suo compito è francobollare la seconda punta avversaria e stargli sul coppino per novantaminutinovanta in modo da annientarne la velleità.

Ovviamente solo quando ardiscono gironzolare nei pressi dell’area, perché il calcio totale non è ancora arrivato a distruggere la poesia del gesto tecnico individuale, nessuno tirerebbe da più di venti metri (e vorrei vedere voi, a cannoneggiare da quella distanza con un pallone di cuoio pesante a cuciture in rilievo, magari gonfio di pioggia). Dalle sue parti agiscono brutti clienti, per classe e temperamento: ti può capitare Ferenc Puskas o Eusebio, o Gento; e in suolo domestico il perfido Enrique Omar Sivori coi calzettoni alla cacaiola, o Pierino la Peste, o Rombo di Tuono. E mancando non solo il Var ma anche l’idea stessa del Var, è facile che Ezio Pascutti ti rifili un cazzotto a prescindere non appena l’arbitro è voltato dall’altra parte. Significa che, essendo meglio prevenire che reprimere, farai bene a tirarglielo tu per primo.

No, non è davvero uno sport per signorine, benché sia il decennio degli abatini esangui alla Gianni Rivera. E Tarcisio, con quella faccia metà pugile e metà ciclista, lo vive e interpreta alla grande. Quattro volte con lo scudetto sulla maglia, due a impugnare la Coppa delle Grandi orecchie (allora un po’ meno grandi) e altrettante quella dei due mondi. In nazionale, dove opera con Zoff o Albertosi, l’inseparabile Facchetti, Niccolai e poi Rosato, Salvadore e poi Cera, non gli va meno bene, visto che è fra i pochissimi azzurri a potersi fregiare del titolo di Campione d’Europa.

Un vincente, quindi. Né rileva che la sua carriera in panchina, che lo portò anche a Foggia, non sia stata particolarmente prodiga di trionfi. Ma credo che nulla spieghi il suo fulgore come l’immagine di una sconfitta.
Tutti quelli che hanno almeno sessant’anni se lo ricordano di sicuro: il 21 giugno del 1970, in quello Stadio Atzeca di Città del Messico che l’Italia ha appena onorato con una delle più avvincenti sfide della storia, si gioca la partita del secolo, quella fra Italia e Brasile, che assegnerà al vincitore a titolo definitivo la Coppa intitolata a Jules Rimet. Tra i ventidue in campo non ce n’è uno scarso. In verdeoro, poi c’è la squadra dei campionissimi. A Tarcisio tocca il peggior cliente di tutti: Edson Arantes do Nacimiento, per i tanti amici Pelé. Il primo quarto d’ora è tranquillo. Poi dall’ala sinistra Roberto Rivelino (“il Pelé bianco”) inventa una parabola su cui saltano la Roccia e la Pantera, l’Operaio e il Nume.

È tutto in un secondo: la gravità chiama a terra Tarcisio, che allarga le braccia in un vano tentativo di sostenersi sull’aria. Cosa che fa senza problemi Pelé, in quello che forse si chiama terzo tempo) sospeso a colpire di testa e a segnare. Non è solo un’azione di calcio, non è solo una vicenda di sport: è la fatica crocifissa (tale sembra la postura di Burgnich al momento dell’impatto fatale) dal Destino, il domatore di cavalli Ettore che soccombe ad Achille sotto le porte Scee, il ripetersi delle tante volte in cui Davide si arrende a Golia senza che i poeti ne cantino. La triste malinconia del mondo come è, nel quale gli Dei distribuiscono i loro doni e talenti a casaccio e capriccio, e l’eroismo di chi cerca di sopperirvi con la fatica senza riposo, con l’applicazione, con la dedizione.

Per questo Tarcisio sarà per sempre il simbolo di quelli cui nessuno ha regalato nulla, che hanno guadagnato ogni singolo centimetro, che sono arrivati alle vette senza saltare nemmeno un crepaccio o un gradino o una croda. Morse la polvere, è vero: ma solo innanzi a un portento. Non ci fu disonore nella sua sconfitta. Riposa in pace, campione.

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