La Trattativa come genere letterario. Travaglio, la realtà e i reality

by Enrico Ciccarelli

La vicenda della cosiddetta “trattativa Stato-mafia” non è processuale o penalistica, ma antropologica. È uno scontro fra la realtà e le credenze, fra il mondo come è e le costruzioni, le speranze e le ostinazioni con cui ci ostiniamo a rappresentarlo.

Provo a spiegarlo con un esempio banale: fra qualche anno uno o più avventurati Pm, uno o più giornalisti in cerca di gloria imbastiranno un’inchiesta sulla trattativa Stato-Isis, iscrivendo nel registro degli indagati qualche funzionario dei servizi segreti, alcuni politici che “non potevano non sapere” e terroristi di passo, medio e piccolo calibro. Oggetto dell’inchiesta sarà la trattativa fra lo Stato italiano e le cellule terroristiche del fondamentalismo islamico.

Non so se le carte di questo eventuale processo validerebbero o meno il teorema investigativo; so che sul piano logico l’esistenza di questa trattativa o di questa tacita intesa è abbastanza ragionevole. Certo, possiamo ritenere che i terroristi abbiano colpito in tutta Europa, ma non in Italia, perché gli Italiani sono brava gente, o perché apprezzano la nostra cucina o perché seguono appassionati il nostro campionato di calcio. Ma la verità è che i nostri servizi segreti hanno una cinquantennale tradizione di rapporti con il terrorismo arabo (da Settembre Nero a Daesh), che questi rapporti hanno tenuto l’Italia quasi completamente immune da attentati, che la contropartita di questa immunità è passata per un certo numero di mancati arresti o di rilasci (ricordate Sigonella e Abu Abbas?).

È uno dei tanti arcana imperii, di quei segreti del potere che sono quintessenziali al potere stesso, e che tutti i poteri indipendenti, dalla magistratura alla libera infomazione, hanno il compito istituzionale di disvelare. Il problema è farlo sulla base di un principio di realtà e non a colpi di esorcismo. Quando Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi denunciano su L’Espresso nel 1967 il tentativo (o la tentazione) di colpo di Stato del generale De Lotenzo e del presidente della Repubblica Antonio Segni, avvenuto tre anni prima, parlano non solo di una cosa storicamente vera, ma anche puntellata da un’impressionante serie di riscontri oggettivi. Le vicende della strategia della tensione, che puntella di bombe la vita italiana dal 1969 al 1980, si accompagnano a una notevole galleria di servizi deviati e generali felloni.

Poi la cosa diventa un genere letterario: da Gladio alla P2 (poi replicata in P3,P4, Loggia Ungheria) passando per la “trattativa” e per “mafia capitale” comincia una giustizia-feilleuton, una tessitura narrativa che identifica lo Stato con il Male assoluto e quindi come necessario alleato di tutti i malvagi, dalla Cia ai mafiosi. Questo storytelling fumettistico cresce progressivamente con l’aumentare dell’analfabetismo funzionale e il crescere dell’infantilismo dell’opinione pubblica, che ormai ha più bisogno di slogan e suggestioni che di informazioni. Il successo di critica e di pubblico dell’orgia eversiva di Mani Pulite diventa un brand, un marchio di fabbrica da imitare.
Naturalmente vertici massimi e intermedi dei servizi segreti avrebbero dovuto essere trascinati in tribunale se avessero assistito inerti all’escalation del terrorismo mafioso nel 1993. Se l’intelligence ci avesse lasciati ciechi e sordi di fronte alle bombe di via dei Georgofili e alla possibile immane strage dell’Olimpico, se non avessimo cercato di comprendere come tenere sotto controllo la bestia ferita di Cosa Nostra (e se credete che sia un’esclusiva italiana, guardatevi la seconda stagione di Narcos). Allora sì che avremmo dovuto processarli, questi benedetti servizi segreti, o almeno chiedere indietro i molti soldi che ci costa il loro funzionamento.
Perché hanno il compito di frugare negli angoli bui, di trattare sul prezzo con i sequestratori, di capire cosa faranno i cattivi. E capita di parlare con loro, di mandare qualcuno a fingere di essere dei loro, di promettere o vagheggiare qualcosa che a loro interessa. Come facciamo a sapere se la partita a scacchi portata avanti da poteri criminali e intelligence è degenerata in qualcos’altro? Grosso modo dai risultati. Le richieste della mafia sono state in tutto o in parte esaudite? Le istituzioni e la politica sono state indotte a compiere atti contrari a legge e Costituzione? Soprattutto, perché uomini che hanno trascorso una vita al servizio dello Stato avrebbero dovuto rinnegare se stessi arruolandosi (gratis) nell’anti-Stato?

Questo in un Paese normale: ma siamo in Italia, il Paese che su Giulio Andreotti ha costruito l’esilarante figura del “mafioso dimissionario”, che alla ricerca del “terzo livello” si disinteressa dei primi due, che sulla criminalità organizzata sforna una leggenda metropolitana dietro l’altra. L’inchiesta sulla trattativa ha distrutto le vite di alcune persone ed è consistita in un gigantesco sciupio di denaro pubblico, ha fatto danni istituzionali inconcepibili (lo stesso Capo dello Stato Giorgio Napolitano fu costretto a sollevare un conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo).
Ma c’è chi ci ha guadagnato: cabarettiste e cabarettisti, cineasti, polemisti. Più di tutti il giornalista (absit iniuria verbis) Marco Travaglio, che ha girato l’Italia con lo spettacolo di “Teatro civile” (ahahah) È Stato la mafia. Non va biasimato, perché ognuno sfrutta le occasioni di profitto che trova. E gli va dato credito di avere capito per tempo che alla realtà, quella dura, impopolare, scabrosa, gli Italiani preferiscono il reality.

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