Una foto simbolo di speranza: Falcone e Borsellino nello sguardo di Tony Gentile

by Felice Sblendorio

“Quella foto ha unito due amici nella vita e nella morte”. Il ricordo del fotografo Tony Gentile, uno dei più apprezzati fotoreporter italiani, è ancora vivido, sentito. La storica fotografia che raffigura Giovanni Falcone e Paolo Borsellino è frutto del suo sguardo, del suo talento. A distanza di ventott’anni dal 1992, quello scatto popolarissimo ha cambiato più vite e significati e ha identificato simbolicamente – con l’esempio reso eterno dei due magistrati palermitani – la lotta della società civile contro la mafia. Nonostante l’orrore della morte, la speranza che abbiamo ereditato dal loro impegno è tutta in quel sorriso catturato da Gentile il 27 marzo 1992 in un convegno a Palazzo Trinacria a Palermo.

Come le storie più incredibili plasmate dal destino, quello scattò non venne utilizzato il giorno dopo sul Giornale di Sicilia a copertura dell’evento, ma si rivelò tragicamente potente quando, dopo l’attentato a Giovanni Falcone, Borsellino venne ucciso. Ancora oggi, quella testimonianza rappresenta un simbolo, un’icona, un dispositivo valoriale di riconoscimento. A ventott’anni da quello scatto, che ha formato e incoraggiato buona parte dell’Italia migliore, bonculture ha intervistato Tony Gentile per ricordare la nascita di una delle foto costitutive dell’identità del nostro Paese.


Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Gentile, la sua vita professionale è stata una rincorsa per catturare la realtà. Com’è nata la passione per il fotogiornalismo?

Mi ha sempre interessato il fotogiornalismo. Da giovane ammiravo Letizia Battaglia e Franco Zecchin: frequentavo il mondo delle manifestazioni e dell’impegno sociale contro mafia e davanti ai nostri striscioni c’erano sempre un paio di fotografi, fra cui loro. Mi affascinava già all’epoca la loro denuncia giornalistica e l’impegno sociale che si concretizzava in quel modo di fotografare.

Essere nato a Palermo che sguardo ha formato?

È stato importante. Spesso si dice che c’è una fotografia siciliana, ma secondo me non c’è in senso accademico: sicuramente esiste una fotografia nata in questa terra che è totalmente diversa dalle altre. In altre città ti saresti potuto soffermare sui paesaggi, mentre a Palermo i fatti di cronaca ti chiamavano, pretendevano la tua attenzione. Quello è stato il mio mondo perché l’ho vissuto, ce l’ho avuto sottomano, non perché l’ho scelto direttamente. Per un giovane fotoreporter, con il sogno di raccontare i conflitti, confrontarsi con quella guerra di mafia fu una prova così forte che non ti poteva lasciare indifferente: io in quelle storie ero coinvolto sia come uomo che come professionista.

La sua carriera è legata allo scatto che ritrae Falcone e Borsellino a pochi mesi dalla loro morte. Lei aveva ventott’anni e collaborava con il Giornale di Sicilia. Quella sera doveva essere lì?

Io quella sera ero lì perché seguivo quell’appuntamento per il giornale. Era una manifestazione politica a sostegno della candidatura di Giuseppe Ayala e c’era sia Falcone che Borsellino. Era un’occasione interessante per la cronaca locale e per quella nazionale, considerando il periodo di forte esposizione mediatica dei due magistrati.

Quel ritratto dolce e spontaneo dei due magistrati ha avuto quattro vite e significati: la casualità dello scatto di quella sera, un significato lieve dopo Capaci, uno tragico dopo Via D’Amelio e uno di speranza nel 1993. Come cambia il senso dello scatto dopo quei fatti terribili?

Sono gli eventi che fanno cambiare il significato, perché la fotografia materialmente rimane quella. Oggettivamente quella foto è un buon ritratto di due personaggi importanti. Gli eventi, poi, cambiano il suo significato. Quando viene scattata è la foto di due amici. Quando muore Falcone si trasforma in un passaggio di testimone con Borsellino in quella stessa battaglia contro la mafia che li aveva accomunati per tanto tempo. Il 19 luglio, invece, quando tragicamente viene ucciso anche Borsellino quella foto rappresenta una sconfitta per tutti. Lo disse anche Caponnetto: era tutto finito. Solamente un anno dopo, in un passaggio dalla tragedia alla speranza, quella fotografia venne utilizzata come simbolo da tutte quelle persone stanche del ricatto e della violenza mafiosa. Dal 1993 rappresenta per tutti noi un simbolo riconoscibile di rinascita e resilienza.

La narrazione delle storie di mafia si è sempre basata sull’estetica dei corpi, del sangue, dell’orrore. In questo caso pensiamo alla sua foto: uno scatto in vita che guarda alla morte.

La narrazione delle storie di mafia, in genere, ci ha abituati ai corpi a terra sì, al risultato plastico della violenza devastante della mafia. Questa foto cambia un po’ quella narrazione. Per Falcone e Borsellino non c’è nessuna foto dei loro cadaveri, ma c’è questo scatto in prossimità della morte che celebra la vita. Loro continuano a vivere in quel sorriso e in quella promessa di coraggio e speranza che tutti noi abbiamo idealizzato nei loro tratti.

Un paradosso.

Io mi porto dentro molte contraddizioni. Sì, rappresenta un messaggio di speranza, ma ricorda anche due persone barbaramente trucidate. Idealmente, è un simbolo che riesce, in quel lato intimo e spontaneo, a immaginare un futuro migliore, una via possibile. Quanto questa via si sia realmente concretizzata non saprei dirlo. Le fotografie, anche quelle di guerra, non cambiano il mondo: semmai cambiano qualche coscienza. Questo scatto credo abbia fatto proprio questo.

Quella sera non era l’unico fotografo presente. Si chiama talento la capacità di cogliere l’attimo giusto?

No, non lo so: credo si chiami mestiere. Gli altri hanno fatto altre foto, molto simili, ma quella mia ha avuto maggiore visibilità per una serie di ragioni che non dipendono neanche dal fotografo, a volte. La mia foto, nella sua composizione, ha avuto maggiore visibilità e, quindi, apparentemente sembra sia unica. Ferdinando Scianna, che è un grandissimo fotografo, mi ha detto che le immagini diventano icone per un meccanismo particolare: noi le abbiamo già viste, quindi riconosciamo qualcosa di noto. Nel tempo ho riconosciuto alcune somiglianze con una serie di opere della storia dell’arte. Forse, quindi, colpisce di più proprio perché, dal punto di vista figurativo, ricorda altro.

Bresson, un maestro del fotogiornalismo, sosteneva che l’attimo bisogna anticiparlo. In quel momento che cosa aveva intuito?

Questa foto è un po’ figlia della “tecnica” dell’intuizione. Se non cerchi di intuire quello che sta succedendo, difficilmente riesci a fare delle foto belle perché quando arrivi i fatti sono già finiti e non hai il tempo di prepararti e scattare la foto. Quella sera io e i miei colleghi eravamo posizionati lateralmente rispetto al tavolo dei relatori e intuii che stava per accadere qualcosa di spontaneo rispetto alla noia – in termini fotografici – di una persona seduta a un tavolo a parlare. Io ho sentito quella complicità di pochi secondi e ho scattato. Bisogna sempre intuire l’attesa, aspettare il momento ed essere pronti. Se ti limiti a guardare l’evento, la foto non ce l’hai: hai semplicemente vissuto quel momento. Se l’anticipi, invece, riesci a catturare quel fatto, rendendolo eterno.

Lei ha immortalato anche altri momenti dolorosi della guerra di mafia palermitana. Com’è stato convivere con quel dolore?

Quel tempo è stato di guerra, nonostante la vita sia continuata regolarmente. Chiunque di noi si sarebbe potuto trovare al centro di una guerriglia o sull’autostrada per Palermo quel 23 maggio. Era una situazione così familiare che la gente ci conviveva con quel terrore. Solo dopo le due stragi ci fu una reazione forte. Palermo, oggi, non è più la città del 1992 perché c’è stato un grandissimo cambio di passo anche nei comportamenti individuali. Prima non c’era nessuna solidarietà per tutti quei magistrati che hanno combattuto la mafia. Prima del 23 maggio non c’era nessuno che li proteggeva, anzi. In città c’era una sorta di silenzio indifferente che aspettava inerme quel destino: eravamo già consapevoli della fine di quella storia. 

Letizia Battaglia ha raccontato di non aver voluto fotografare Capaci e Via D’Amelio perché era impossibile testimoniare una tale sconfitta. Lei ci andò, invece. 

Sì, certamente: sono stato uno dei primi fotografi ad arrivare a Capaci.

In “Agenda, cose da fare” ha raccontato che la vita di un giovane reporter è scandita da telefonate, viaggi rapidi in moto, confusione. Ricorda come le arrivò la notizia di Capaci e cosa fece il 23 maggio 1992?

Lo ricordo in maniera lucida. Quel 23 maggio era un sabato pomeriggio, dunque un momento relativamente tranquillo per la vita di un giornale. Tramite il collegamento radio con la polizia capimmo che era successo qualcosa di grosso a Capaci. Non avendo notizie aggiornate, pensavamo fosse un incidente in una cementeria non molto distante dallo svincolo, ma poco dopo ci arrivò la notizia: quel tritolo aveva colpito Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta. Quando arrivammo lì l’autostrada non era percorribile, quindi ci siamo fermati parecchie centinaia di metri prima dal cratere e abbiamo raggiunto a piedi il luogo dell’attentato. In prossimità del cratere, dove i pezzi d’asfalto erano volati ovunque, mi chiesi come fosse possibile tutto quell’orrore. Ricordo di quel momento l’incredulità per l’estrema prova di forza utilizzata dalla mafia. Falcone e Borsellino erano sicuramente considerati dei morti che camminavano, ma mai nessuno avrebbe immaginato una fine del genere. Quell’autostrada sventrata non la dimenticherò mai.

C’è qualcosa che la colpì particolarmente di quei due teatri di guerra?

Mi impressionò vedere le persone camminare sull’auto di Falcone sommersa dalla terra. In quel luogo era tutto completamente assurdo, incredibile: nulla mi sembrava vero o reale. 57 giorni dopo, a Via D’Amelio, quell’incredulità si trasformò in un dolore raccapricciante perché in quella strada abbiamo visto i cadaveri, i morti per terra. Ricordo i rumori, la confusione, la puzza delle gomme bruciate: è un momento fastidiosissimo da ricordare.

Le foto che lei ha scattato il 23 maggio e il 19 luglio 1992 testimoniano plasticamente una distruzione cinica non solo materiale, ma anche umana. Nonostante la confusione e il terrore di quei momenti, sembra sia il vuoto il protagonista principale dei suoi scatti. Condivide?

La sensazione era quella, ma in quel momento non c’era l’intento di esprimere qualcosa. In quei casi c’è solo l’istinto naturale del racconto. C’è un dovere di cronaca, per citare ancora un bel libro di Battaglia e Zecchin: c’è un dovere che arriva prima delle tue emozioni tradotte in estetica.

Lei ha scattato una fotografia che appartiene alla storia più che alla cronaca. Le icone, di solito, hanno la capacità di travalicare il tempo, lo spazio, l’estetica e, paradossalmente, anche l’autore. Ci si libera mai da opere del genere?

No, non ci si riesce mai: ci si abitua a convivere con una cosa così invadente. Quando la tua opera diventa estremamente popolare, oscurando tanti altri lavori di trent’anni di carriera, inevitabilmente ti assorbe. Io non ho fotografato l’ultimo panda in vita, ma ho fotografato due persone che sono morte e che, ancora oggi, rappresentano moralmente qualcosa per tutti noi. C’è un peso importante che non si può dimenticare. Al netto di tutto, ci sono anche soddisfazioni inimmaginabili: ritornare nella mia città, a Palermo, e vedere il murales sul porto che riproduce quel mio scatto è stata sicuramente un’emozione forte, che non dimenticherò facilmente.

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