Alberto Lattuada, il regista delle donne: Katia Moguy e un dongiovanni

by Gabriella Longo

Usando un’espressione di Cosulich, definiremmo Alberto Lattuada un “libertino metodico”; autore, peraltro, di una raccolta di poesie dal titolo che già la dice lunga – Diario di un grande amatore – passa alla storia come il regista delle ninfette e delle fanciulle en fleurs.

La predilezione del regista lombardo per una femminilità androgina – che è in primis una sorta di feticismo personale (si pensi al lungo indugiare dalla mdp sui visi e sui dettagli delle protagoniste) – viene pian piano contrapponendosi al modello aureo delle gigantesse felliniane impostosi nella prima metà dei sixties.

Lattuada è sempre stato il regista delle donne, sin dal suo film più cinefilo, Il bandito. Ma è proprio guardando all’evoluzione dei volti femminili del suo cinema, che ci si rende conto anche dei mutamenti della società italiana: dalla Magnani ne Il Bandito (1946), si passa per la Silvana Mangano in Anna (1950), si giunge alle bellezze acerbe delle varie Jacqueline Sassard in Guendalina (1957) e Catherine Spaak in Dolci inganni (1960), simboli di un universo femmineo giovane e scaltro alla Bond Girl, dinnanzi alle quali l’uomo non prova che smarrimento, un po’ come il Mastroianni in La città delle donne.

E non c’è film migliore de Il Don Giovanni in Sicilia che possa raccontare del triste destino che spetta alla mitica figura del seduttore, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Uscito nel 1967, Lattuada scrive la sceneggiatura assieme a Sabatino Ciuffini e Attilio Riccio attingendo dall’omonimo romanzo del ’41 di Vitaliano Brancati. Nei panni di Ninetta Marconella, protagonista femminile del racconto, Lattuada sceglie Katia Moguy, figlia del regista francese Léonide Moguy e al suo debutto cinematografico.

Le affianca, nel ruolo del gallo catanese, Giovanni Percolla, un ben più navigato Lando Buzzanca il quale, figlio del filone cinematografico dei meridionali emigrati al nord, si ripropone nelle vesti del caratterista, ovverosia, riconfermando l’immagine del siciliano che la pochade andava proponendo.

È chiaro che l’intento di Lattuada, nell’ambientare le vicende negli anni del boom, non è quello di riscrivere cinematograficamente il romanzo di Brancati, all’interno del quale, invece, soggiaceva un’aspra critica nei confronti dell’attivismo fascista. Ma quello di dare voce e corpo, alla vera protagonista del film, e cioè alla Moguy, che si muove con disinvoltura dentro ad un mondo tragicamente entrato dentro ad una nuova dittatura, quella della merce.

Significativa, nell’ottica della nuova prospettiva dalla quale guardare questo fenomeno, che potremmo definire quasi una sorta di “dongiovannismo in rosa”, è la scena della festa milanese a casa di Stefania (Stefania Careddu), alla quale il regista sceglie di far presentare la coppia di sposi Giovanni/Buzzanca e Ninetta/Moguy, niente di meno che con il medesimo abito. Un completo maschile.

Scelta perfettamente coerente con la posizione del regista, espressa in un’intervista intervista pubblicata sull’Almanacco Letterario Bompiani del 1967: «Nell’Ottocento l’ideale di bellezza femminile era una donna curvilinea, materna, morbida, dalla figura ad anfora. Oggi l’ideale è una donna di linee verticali, adolescente, asciutta, dalla figura efebica. La facilità e insieme l’insoddisfazione che dominano oggi i rapporti sessuali fanno crescere negli uomini l’aspirazione a possedere i due sessi in una sola creatura».

Il cinema di Lattuada ha catturato, sul finire di un decennio, il mistero androgino della nuova donna, la quale, vista la sconfitta dell’altro sesso, condensa necessariamente al suo interno le caratteristiche del maschio. È una figura la cui morale è già oltre i tabù e le ipocrisie, e per dirla con le parole di Vittorio Spinazzola, «anticonformista sul piano delle convenzioni sessuali ma estranea alle pose ribellistiche».

Lattuada, il regista della bellezza, ha inconsapevolmente nascosto sotto l’erotismo del suo cinema una rilettura della nozione epsteiniana di fotogenia. Jean Epstein, teorico dell’impressionismo cinematografico, sosteneva che la macchina da presa era capace, col suo sguardo meccanico, di accrescere il valore morale degli oggetti e degli individui rappresentati: così, le ragazze en fleurs di Lattuada assurgono a simboli di ambiguità estetica ed etica, una volta filtrati dall’occhio del regista.

È ciò che avviene con i corpi giovanili della Sassard in Guendalina, della Spaak in Dolci inganni, ma anche con la Moguy nel Don Giovanni in Sicilia, la quale si presenta al pubblico come una siciliana dai tratti insolitamente nordici, come estremamente femminile e al contempo vagamente hippie,come composta figlia di marchesi e allo stesso tempo vestita alla yé-yé.

E che fine fa, dunque, il seduttore? In questo film Lando Buzzanca/Giovanni Percolla, rappresenta il volto di un dongiovannimo capitalistico più che donnesco. “In Ispagna son già mille e tre”, avrebbe detto il celebre seduttore mozartiano stringendo il Catalogo delle conquiste amorose, ma di certo non Buzzanca, per il quale, nei panni di Percolla, il numero dei successi lavorativi si sostituisce a quello delle donne, davanti alle quali non gli basterà indossare un paio di modernissimi occhiali da vista per “vederci meglio”. Alla festa di Stefania, Giovanni/Buzzanca viene invece ritratto da Lattuada tramite l’utilizzo della reificazione, il quale lo ha dotato di segni esteriori per non scomparire nello sciame femmineo: i baffi sono il disperato tentativo del gallo di affermare la sua sicilianità/virilità nel contesto milanese, così come, presentarsi con gli occhiali, può voler soltanto suggerire quel suo smarrimento.

Il Percolla brancatiano rappresentava in chiave comica l’atrofizzazione dell’uomo che ha rifiutato l’attivismo fascista, ecco, perché, nella maggior parte dei casi, sui dongiovanni dell’autore di Pachino gravava paradossalmente lo spettro dell’impotenza (si veda anche Antonio Magnano ne Il bell’Antonio, il cui volto filmico sarà, non caso, quello di Marcello Mastroianni nella celebre pellicola di Mauro Bolognini).

L’impotenza contraddistinguerà anche il (don) Giovanni/Buzzanca di Lattuada, difronte alle innumerevoli amanti e in particolare alla bella Wanda/Ewa Aulin. Ma per ragioni diverse da quelle di Brancati: Giovanni è diviso fra la riunione con il consiglio (a Milano è impegnato nel lavoro in una azienda) per l’approvazione di una bistecca artificiale e la donna che lo aspetta nello stesso hotel in cui si svolge il meeting, ma in una camera al piano di sopra. La sequenza avrà un montaggio serratissimo, il quale segue gli spostamenti di Giovanni letteralmente scisso fra il dovere e il piacere, entrambi praticati a Milano quasi per accumulo fine a sé stesso. Si pensi, a tal proposito, alle parole che Jean Baudrillard, grande indagatore dei meccanismi della post-modernità, consegna alle pagine di Le strategie fatali: “La situazione non è dunque più duale, è diventata unilaterale. La donna-oggetto era sovrana e restava signora della seduzione (di una segreta regola del gioco del desiderio). L’uomo-oggetto non è che un soggetto spogliato, nudo, orfano di desiderio, che sogna una padronanza perduta – né soggetto né veramente oggetto di desiderio, ma soltanto l’elemento mitico di una realtà crudele.”

L’alienazione del seduttore è quella dell’uomo del neocapitalismo, le cui facoltà fisiche vengono compromesse da una incessante oggettivizzazione del successo, dell’amore: ogni cosa sembra possibile e raggiungibile, e nel frattempo non ci si accorge che si è smarrito il desiderio che aveva spinto a cercare quel successo e quell’amore.

Lattuada ha raccontato la storia del seduttore (o meglio, delle seduttrici), in «un’epoca nella quale le barriere tra il vecchio e il nuovo trovano una collocazione non tanto nella carta geografica, quanto nel subcosciente», per citare ancora Cosulich che parlava del regista in un numero di «ABC» del ‘67.

Sarà stato semplice per il seduttore, rispetto al suo antenato brancatiano, adeguarsi alle leggi del mercato, ma non sembra che sia riuscito, nonostante gli occhiali, a vederci meglio con le donne.

Ma, dopotutto, come suggerisce Giovanni Macchia riferendosi ai mille volti che il dongiovanni ha assunto nel corso della storia, “ogni epoca ha il personaggio che si merita”.

E possiamo dire con certezza che, in questa, i dongiovanni non sono di certo uomini.

Gabriella Longo

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