Amore e tragedia: la storia di Carlo Gesualdo e Maria d’Avalos nella Napoli Spagnola

by Eugenio D'Amico

Piangi Napoli mesta in bruno ammanto,

di beltà di virtù l’oscuro occaso

e in lutto l’armonia rivolga il canto.

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Torquato Tasso: In morte di due nobili amanti

A Piazza San Domenico Maggiore, a lato del Complesso Domenicano, si trova il Palazzo che poi fu dei Sangro di Sansevero. Qui, sul finire del 1500, vivevano Carlo Gesualdo, principe di Venosa, Conte di Conza e Signore di Gesualdo e la moglie, la bellissima Maria d’Avalos.

Carlo Gesualdo apparteneva ad una delle più antiche e nobili famiglie napoletane; discendeva dal normanno Roberto il Guiscardo, suo nonno Fabrizio I era stato intimo di Carlo V e aveva goduto del raro privilegio di poter stare a capo scoperto al suo cospetto, e suo padre, Fabrizio II era stato nominato Grande di Spagna da Filippo II; sua madre era una Borromeo, sorella di quel Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano che la Chiesa farà santo.

Carlo era un appassionato e raffinato musicista; compositore geniale ed esecutore virtuoso di madrigali, la sua arte era apprezzatissima tra i contemporanei che lo avevano definito “il principe dei musici”. Nel suo palazzo aveva creato un vero e proprio cenacolo di artisti con i quali condivideva la passione per la musica e la poesia.

Pur giovanissima, ma più anziana di Carlo di qualche anno, Maria d’Avalos, bellissima ed affascinante,  era al suo terzo marito, perché i primi due erano morti entrambi dopo pochi anni di matrimonio, consumati, dicevano i maligni, dall’ ”esuberanza” della sposa. Don Carlo e Maria erano cugini di primo grado poiché Maria era figlia del Principe di Montesarchio Carlo d’Avalos, e di Sveva Gesualdo, zia del marito per parte di padre, e il matrimonio era stato dettato più dal desiderio di accrescere la potenza delle due casate, che da amore. 

Maria, trascurata dal marito troppo preso dalla sua musica e dalla caccia che era la sua seconda passione, conobbe ad un ballo don Fabrizio Carafa, duca di Andria, ritenuto il più bel cavaliere di Napoli. Don Fabrizio era sposato con donna Maria Carafa di Stigliano da cui aveva avuto quattro figli, ma ciò non gli impedì di corteggiare la seducente gentildonna che in breve ricambiò il suo amore.

Cronache forse fantasiose dicono che il loro primo incontro amoroso avvenne nel giardino di una casa sulla nuova via Chiaia, dove Maria, fingendo un’improvvisa indisposizione, si era rifugiata durante una passeggiata sapendo che don Fabrizio era lì ad attenderla. A quell’incontro che fece divampare un’incontenibile passione, seguirono molti altri: i due amanti, in assenza di don Carlo che spesso lasciava Napoli per lunghe battute di caccia, trascurando ogni precauzione si incontravano anche nelle stanze del palazzo fino a che la tresca, ormai nota a tutta la città venne alle orecchie del principe, forse svelata, come dicono alcune cronache malevole, da uno zio di Carlo, Giulio Gesualdo, che volle così vendicarsi della nipote che aveva respinto le sue avances amorose.

Così il dolce madrigalista per vendicare l’onore offeso, si trasformò in uno spietato assassino. In una notte di autunno del 1590, dopo aver finto di allontanarsi da Napoli per una partita di caccia, penetrò con tre suoi servi fidatissimi nell’appartamento della moglie e sorpresi i due amanti, li fece uccidere accanendosi poi sui cadaveri col suo pugnale. Quindi ordinò che i corpi fossero buttati sulla strada all’ingresso del palazzo e, ancora sporco di sangue, di primo  mattino corse a raccontare il suo crimine al Viceré Juan de Zúñiga, conte di Miranda che per evitare che si scatenasse la vendetta dei Carafa, consigliò a don Carlo di allontanarsi da Napoli, cosa che il principe fece immediatamente, rifugiandosi nel castello di Gesualdo, nel cuore dell’Irpinia.

La notizia della tragedia si sparse per la città e per più giorni commosse ed eccitò i napoletani: tra la folla accorsa sul luogo del delitto che faceva poi capannello agli angoli delle vie, passavano di bocca in bocca, ingigantiti dalla fantasia popolare mossa a pietà per l’orribile fine dei due amanti,  racconti sempre più inverosimili e particolari sempre più atroci sul terribile crimine. Alcuni raccontavano che la moglie di don Fabrizio Carafa, che era religiosissima, quella notte mentre era immersa in preghiera, aveva avuto la visione del luogo dove suo marito giaceva ucciso e perciò, prima ancora che qualcuno le portasse la notizia del delitto aveva vestito gli abiti di lutto.

Altri arricchivano di particolari atroci e macabri il racconto del duplice delitto: si diceva che don Carlo avesse infierito a pugnalate sui corpi ancora caldi dei due amanti e che di proposito li avesse esposti alla vista di tutti, vietando che fossero rimossi o coperti con un lenzuolo. E la voce popolare sussurrava che a cagione di ciò il corpo di Maria la notte successiva ai fatti era stato violato da un misterioso e ripugnante monaco gobbo; correva poi voce che don Carlo avesse anche strangolato un suo secondo figlio ancora nella culla credendo di riconoscere nel suo volto le sembianze di Fabrizio Carafa, e perciò la sentenza della Gran Corte Criminale della Vicaria che dopo pochi giorni per ordine del Vicerè archiviò il caso assolvendo il marito uxoricida “stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso”, fu apertamente contestata e biasimata dai napoletani, commossi dalla triste sorte dei due amanti.

Don Carlo fuggito a Gesualdo non tornò più a Napoli. Ossessionato dal timore della vendetta dei Carafa, fortificò ancor più il suo castello e giunse addirittura al punto di tagliare il folto bosco che lo circondava per evitare che vi si annidassero eventuali nemici. Quattro anni dopo sposò Eleonora d’Este da cui ebbe un figlio che morì ad appena tre anni, ma anche questo matrimonio non fu felice. La boria spagnoleggiante di don Carlo e la naturale diffidenza ed introversione del suo carattere, ingigantite dalla tragica vicenda di cui era stato protagonista, impedirono un sereno rapporto con la seconda moglie e crearono incomprensioni e freddezza con la corte estense.

Il Principe, sentendosi rifiutato dai suoi nuovi parenti e ritenendo di non essere pienamente apprezzato dall’ambiente culturale e musicale di Ferrara, tornò di nuovo a Gesualdo dove cercò inutilmente di cancellare i suoi rimorsi edificando chiese e conventi, e di allontanare i suoi incubi circondandosi di una corte di musici ai quali affidava l’esecuzione delle sue opere, ormai quasi tutte di ispirazione religiosa.

Recluso nel suo castello, schiacciato dall’angoscia e dai tristi ricordi cominciò ad accusare dolori e malattie, generate dalla sua ossessione, che erano lenite solo dalle percosse che nel suo spasmodico desiderio di espiazione si faceva infliggere dai servi. E quando ebbe notizia che anche il suo unico erede, quell’Emanuele avuto da Maria d’Avalos, era morto per una caduta da cavallo, si lasciò morire d’inedia, sopraffatto dal dolore e dai rimorsi che aveva cercato invano di esorcizzare nel grande dipinto, Il Perdono di Gesualdo, da lui commissionato per la chiesa di Santa Maria delle Grazie.

Don Carlo fu sepolto nella Cappella di Sant’Ignazio della Basilica della Trinità Maggiore, quella che i napoletani chiamano Chiesa del Gesù Nuovo, a poca distanza dalla basilica di San Domenico Maggiore dove, nella cappella di Ferrante Carafa suo primo marito, era stata sepolta Maria d’Avalos, ma il suo fantasma pare si aggiri ancora, ombra tra le ombre, nell’antico castello di Gesualdo, e tende l’orecchio ad un liuto che accompagna uno struggente canto a più voci di quattrocento anni fa: “Delicta nostra ne reminiscaris, Domine”, “Non ricordarti, o Signore, dei nostri peccati”, e ai versi che, oggi, quasi come un’assoluzione laica, canta Franco Battiato: “i madrigali di Gesualdo, principe di Venosa, musicista assassino della sposa – cosa importa? Scocca la sua nota, dolce come rosa”.  

Ma se l’anima di Carlo Gesualdo forse è finalmente in pace e il suo spirito è appagato dall’unanime riconoscimento del suo genio musicale, nessuna melodia può consolare l‘altro fantasma che ancora dopo quattrocento anni piange la sua giovinezza stroncata ed il suo amore perduto.

Nell’anniversario della sua terribile morte le sua urla agghiaccianti per molti anni svegliarono di notte, all’ora del delitto, gli abitanti delle case vicine al palazzo Sansevero. Poi, nel 1889, l’ala sinistra del palazzo, quella in cui, al secondo piano, erano stati uccisi i due amanti crollò di schianto. Da quel giorno cessarono le urla terrorizzate di Maria, ma da allora pare che, specialmente nelle notti senza luna, l’ombra di una figura femminile bellissima, si aggiri discinta e con i lunghi capelli sciolti, tra l’ingresso della Chiesa di San Domenico Maggiore e il portale del Palazzo dei Principi di San Severo e qualche notturno passante che ha avuto la sventura di incontrarla rabbrividisce ancora ricordando il suo sguardo disperato e il suo volto inondato di lacrime….

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