La classe operaia va in paradiso, la riflessione amara di Elio Petri

by Daniela Tonti

Da ragazzo avevo fatto per qualche mese l’edile e sapevo che gli operai si somigliano, un operaio romano non è tanto dissimile da uno milanese, forse solo nella cultura ma non certo nel rapporto con l’esistenza. Per esempio c’era sempre il problema del cottimo. Io mi appigliai, anche perché il problema tra il tempo esistenziale e il tempo produttivo, stringi stringi ce l’ha chiunque e in fondo ce n’era già un accenno nel mio I giorni contati. Proposto con un linguaggio meno isterico ma c’era..

Elio Petri

Elio Petri ripeteva spesso nelle interviste, come in quella a Dacia Maraini del 1973, che il suo unico maestro fu Giuseppe De Santis con cui lavorò su un’inchiesta per il film Roma Ore 11, uno tra i film più significativi del regista di Riso Amaro. La storia prende spunto da un fatto di cronaca. È il 1951 e in risposta ad un annuncio di lavoro come dattilografa si ritrovano in via Savoia a Roma oltre duecento ragazze. Sono anni in cui la disoccupazione raggiunge livelli stratosferici e le donne, nella ricerca di un posto di lavoro, sono quelle più penalizzate. Tra le aspiranti dattilografe ci sono madri di famiglia, ex nobili cadute in miseria e persino prostitute. Si accalcano su una scala e basta un litigio a scatenare la rissa. La ringhiera crolla e le donne cadono rovinosamente rimanendo schiacciate. Una di loro, Anna Maria Baraldi perderà la vita.

Venti anni dopo quell’esperienza e dopo aver già portato a casa numerosi ottimi risultati in generi come il poliziesco, il giallo e persino la fantascienza regalandoci opere come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La decima vittima, A ciascuno il suo e I giorni contati (che è considerato da molti il suo miglior film), Elio Petri tornerà a parlare di lavoro.

La classe operaia va in paradiso non ebbe molta fortuna. Fu un film che scontentò tutti quelli che avrebbero dovuto almeno in teoria apprezzarlo: il partito comunista, il sindacato, la sinistra e i giovani intellettuali. D’altronde fino a quel momento i movimenti tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi Settanta che agitavano le piazze e le coscienze ispirarono non pochi film d’autore che però sfogavano la loro rabbia su istituzioni come la Chiesa, la famiglia e la società borghese. Un cinema che guardava agli esiti estremi della Nouvelle Vague francese “cercando di pensare più a Godard che non a Truffaut”. La classe operaia è un film che si lascia alle spalle tutto questo e traccia una rotta diversa, unica nel suo genere.

Noi di sinistra effettivamente non sapevamo un cazzo della fabbrica o meglio ci sfuggiva la vita degli uomini dentro la fabbrica della catena di montaggio, della vita, dei ritmi di lavoro e dei loro ragionamenti. In effetti chi c’era mai stato in fabbrica?

Ugo Pirro, sceneggiatore del film

Il protagonista Ludovico Massa detto Lulù lavora come operaio in fabbrica da molti anni ed è all’inizio del film il prototipo perfetto dell’uomo colonizzato dal capitalismo: sogna di possedere beni materiali per se stesso e per la sua famiglia e per riuscire a ottenerli si impegna in turni lunghissimi e stressanti contraddistinguendosi per il servilismo nei confronti dei padroni che lo allontana dai suoi compagni. Tornato a casa non ha nemmeno voglia di mangiare e si addormenta spesso davanti alla televisione. Nemmeno gli slogan degli studenti urlati nelle strade sortiscono in lui qualche effetto. Fino al giorno in cui perde un dito in un incidente e si accorge di quanto sia alienante il lavoro che gli consuma la vita. A questo punto si avvicina ai movimenti studenteschi e ai sindacati dai quali sarà allontanato perché non segue le ideologie ma è mosso dalla presa di coscienza personale.

Sono gli anni della celebre e mai accettata presa di posizione di Pier Paolo Pasolini contro i movimenti studenteschi e Elio Petri non fa che calcare la mano con un film che  li mostra essere più una moda che una funzione attiva di cambiamento.

Lulù rimane solo, lasciato dalla compagna e licenziato dalla fabbrica e trova sponda nell’unica figura positiva del film, Militina che vive in un manicomio. Alla fine viene raggiunto da  un gruppo di sindacalisti e studenti che gli annunciano di essere riusciti a farlo riassumere. Nella scena finale Lulù racconta ai suoi colleghi operai il suo strano sogno riguardo la nebbia e il muro da abbattere. Il paradiso.

A colpire nell’opera di Petri c’è sicuramente l’isolamento del personaggio sottolineato dal montaggio, dalla colonna sonora di Ennio Morricone e dalla recitazione straordinaria di Gianmaria Volontè. C’è nell’opera tutta di Elio Petri, un regista il cui valore non è mai stato riconosciuto dalla critica, uno scontro tra due tendenze, il realismo sociale e la metaforizzazione del reale. Petri si mette dalla parte del pubblico coniugando ricerca e spettacolo, dramma e commedia, denuncia ed erotismo, ma non mai rinuncia alle ambizioni della scrittura cinematografica.

Una battaglia quella della critica contro Elio Petri che non ha precenti nella storia del cinema italiano. Virulentissima su tre suoi film campioni d’incasso come Indagine, La classe operaia e A ciascuno il suo. Senza considerare l’Oscar come film straniero a Indagine e i riconoscimenti di Cannes a tutti e tre. E non si può non citare un articolo di Orio Caldiron che ha fatto storia, dal titolo Petri non va in paradiso:

“Sono stati rivalutati tutti. Non c’è regista o attore bersagliato dalla critica che non abbia trovato qualcuno disposto a capovolgere le inappellabili condanne di ieri in altrettante assoluzioni. L’unico che sembra non aver beneficiato della prova di appello inevitabile in un Paese come il nostro, sensibile alle oscillazioni del gusto e agli stagionali cambi di guardaroba, è Elio Petri.”

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