E il monaco scappò con la bella signora

by Carmine de Leo

Fatti e misfatti, storie vere che sembrano inventate, ma la realtà sulle vicende di conventi e monasteri ci sorprende sempre con nuovi e curiosi episodi tramandati da manoscritti e antiche carte processuali.

E’ questo il caso delle “Cronache leccesi”, vero e proprio contenitore pieno di notizie anche singolari che accaddero nei secoli passati nella città di Lecce e nel Salento.

Stilato verso la metà settecento dal Piccinni, questo manoscritto resta oggi un prezioso scrigno di storia locale.

Fra le tante vicende narrate da questo autore ci colpisce, per la particolarità del caso, quella relativa ad un monaco che, liberatosi dell’abito e della sua condizione, pensò bene di scappare con una bella signora, peraltro già maritata.

Quest’ultima condizione della donna, però, era considerata in quei tempi come un vero e proprio reato penale e le fedigrafe erano punite con l’arresto!

Frate Gabriele Carelli, questo il nome del religioso protagonista di questa vicenda che, nonostante il suo nome proprio, Gabriele, un angelo certamente non doveva essere, apparteneva all’ordine di San Domenico i Guzman e risiedeva presso il convento di Montefusco, in provincia di Avellino, comune in cui fino all’Ottocento vi era un piccolo monastero di padri domenicani attiguo alla chiesa di Santa Caterina da Siena, poi soppresso dopo l’Unità d’Italia.

A Montefusco padre Gabriele conduceva la sua vita di religioso ed aveva contatti, seppur non frequenti, con la popolazione del luogo, vuoi per fornire le derrate alimentari al monastero per il sostentamento suo e dei suoi fratelli conventuali e vuoi per prestare l’assistenza spirituale ai fedeli del paese di Montefusco.

Attraverso questi contatti con il mondo esterno al suo monastero, frate Gabriele stemperava in qualche modo la solitudine della sua vita monastica.

Molto probabilmente fu proprio tra i fedeli che frequentavano il convento dei padri di San Domenico che il monaco ebbe modo di conoscere la bella popolana già marita protagonista insieme a lui di una tresca amorosa sfociata in una fuga nel Salento.

Nonostante l’abito monastico del suo ordine, frate Gabriele si presentava di bell’aspetto e non passava inosservato agli occhi delle belle donne del paese, che lo cercavano spesso per un “conforto” spirituale!

Per una di queste, di cui le cronache settecentesche  non riportano il nome, sullo spirito prevalse l’amore e la bella signora s’infatuò perdutamente di frate Gabriele.

Il povero monaco, si sa la carne è debole e l’occasione favorisce il peccato, corrispose ben presto le attenzioni della bella signora.

A causa della condizione dei due amanti, era molto difficile per loro incontrasi in un paese, come Montefusco, non certo molto grande e molto rare erano leoccasioni che fra Gabriele aveva di poter allontanarsi dal suo convento e passare inosservato ad occhi indiscreti.

La gente iniziò a mormorare, un fiume di pettegolezzi che si ingrossava giorno per giorno, passarono alcune settimane e poi mesi interi e la condizione dei due amanti diventava sempre più difficile!

Il loro segreto rischiava di non essere più tale e un giorno il loro disperato amore prese il sopravvento sulla paura delle conseguenze, essendo la bella popolana già maritata e frate Gabriele obbligato al suo voto religioso; decisero quindi di scappare insieme da Montefusco e rifugiarsi in altra regione.

Dalla Campania alla Puglia, questo il percorso della fuga dei due amanti; sicuramente aiutati da alcuni complici, si stabilirono infine nel lontano Salento, nella cittadina di Gallipoli, porto allora molto frequentato e più fiorente di oggi, ove pensarono fosse più facile confondersi fra quei cittadini, anche stranieri, che lo frequentavano.

All’epoca dei fatti, nel XVIII secolo, l’adulterio e l’abbandono dei voti religiosi erano considerati come gravi reati e il marito della bella popolana non si era dato affatto per vinto e voleva che sua moglie tornasse a Montefusco.

Denunziata quindi alle autorità la fuga della sua consorte con frate Gabriele, le sollecitava periodicamente a rintracciare i due amanti per tutti i territori del regno, insinuando anche che la fuga della moglie era da considerarsi un vero e proprio rapimento da parte del frate domenicano, che aveva plagiato la sua bella consorte.

Le indagini della gendarmeria nei mesi successivi risultarono infruttuose, ma infine, dopo molto tempo, ecco che qualche breccia si fece strada tra i complici della fuga dei due amanti e il frate e la fedigrafa furono rintracciati presso la cittadina di Gallipoli dopo circa un anno da loro fuga.

Per ordine della Corte di Giustizia furono quindi entrambi arrestati e poi condotti separatamente a Lecce, città capoluogo del Salento.

Frate Gabriele, in quanto religioso, fu rinchiuso presso il carcere della Nunziatura sotto la giurisdizione del vescovo di Lecce, mentre la sua amante fu condotta presso le carceri della Regia Udienza.

Si svolse presto il processo e la sentenza di condanna stabilì che il monaco fosse tradotto presso le carceri di Napoli, allora capitale del Regno delle Due Sicilie e la sua amante restasse reclusa a Lecce.

Arrivato il giorno della traduzione di padre Gabriele, fu approntato un calesse con una scorta di soldati per il trasferimento a Napoli, ma il monaco, nell’attesa della partenza, si mise a raccontare con dovizia di particolari piccanti ai militari la sua avventura amorosa, allentando in tal modo il loro controllo e riuscendo a salire da solo sul calesse e fuggire a gran galoppo dal drappello dei doldati destinati alla sua scorta.

La fuga, però, non fu certamente molto lunga; fra Gabriele, infatti, andò a rifugiarsi presso la chiesa del Vescovato di Lecce, la bella cattedrale seicentesca dedicata a Maria SS. Assunta.

In questo edificio religioso il monaco pensava di avere asilo e sottrarsi alla giustizia ordinaria, ma le autorità, venute a conoscenza della sua fuga, inviarono il Commissario del’Annunziata, don Tommaso Santoro, con un nutrito drappello di soldati che, nonostante il diritto di asilo, penetrarono nella chiesa e riacciuffarono frate Gabriele che, suo malgrado, fu poi tradotto nelle carceri di Napoli.

Informato dell’accaduto, però, il vescovo di Lecce, certamente non per simpatia e riguardo nei confronti di fra Gabriele, ma per far rispettare i suoi diritti, reclamò la restituzione del monaco domenicano, che rifugiandosi in chiesa si era sottratto alla giurisdizione regia e le autorità giudiziarie furono costrette così a riportare a Lecce frate Gabriele, che finì i suoi giorni presso le carceri del Vescovato, mentre la sua amante restò presso quelle della Regia Udienza fino a quando non fu “restituita” al proprio marito!

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