Donna e madre. Medea, eroina tra gli eroi

by redazione

La mitologia, sin dall’alba dei tempi, si nutre dei significati simbolici della vendetta e di quell’affascinante insieme di norme sacrali che la accompagnano. I miti, le leggi e i culti religiosi hanno una comune origine in quella violenza solennizzata che atterrisce chiunque vi entri in contatto. Il mito di Medea, in particolare, presenta numerose chiavi di lettura, tra cui una antropologica molto interessante che ci invita a considerare le crudeli vicende della principessa colchica molto più che un’arida reminiscenza di un passato ormai lontano. 

Credo, invece, che la mitologia, ancora oggi, faccia maggiormente sentire la sua importanza ogni volta che siamo costretti a confrontarci con la parte più recondita dell’animo umano. Le stesse idee di nascita, diffusione e morte appaiono insensate ogni volta che proviamo ad applicarle alla mitologia perché il mito è l’umanità che si racconta, al di là dello spazio e del tempo. Ancor più insensato sarebbe pensare che la mitologia non abbia più nulla da dire, sarebbe anzi più opportuno iniziare a prendere atto che l’umanità non abbia più orecchie per ascoltare le altre creature e se stessa. Il linguaggio, sebbene abbia subìto notevoli mutamenti a causa dei potenti mezzi tecnologici e dei “nuovi” valori della società, è senza dubbio l’ultimo baluardo in cui il mito continua a difendersi e, soprattutto, a difenderci da una progressiva desensibilizzazione. Wittgenstein afferma che nella lingua parlata “è depositata un’intera mitologia”, cioè che ancora oggi vi è un inconscio collettivo in cui le figure mitiche trovano il loro spazio, così come nei nomi delle moderne strade trafficate continuano a esistere luoghi ormai sepolti dal tempo.

Medea è uno di quei personaggi enigmatici che, dopo migliaia di anni, ci lascia più domande che risposte e ancora riesce a scuotere le coscienze di tutti coloro che provano a comprendere e spiegare il suo agire così crudelmente umano. I miti sono i più grandi conoscitori dell’anima e, se oggi avessimo l’intelligenza di dar loro l’importanza che meritano, avremmo un’umanità senza dubbio più consapevole. Azioni, sentimenti e follie primigenie cambiano senza mutare mai e l’Uomo conserva la sua interpretazione simbolica uguale da millenni in modo tale che chiunque possa riconoscersi in Medea, piuttosto che in qualsiasi altro eroe che gli sussurri le parole consolatorie di cui noi esseri umani abbiamo ancora un grande bisogno. Mai come oggi risulta necessario acquisire la simbologia ancestrale e ripristinare il contatto con la spiritualità per demarcare nuovamente i confini entro cui l’umanità può agire senza sostituirsi alla natura o alla divinità, a seconda delle proprie convinzioni.

La mitologia della vendetta ha esplicitamente favorito la canonizzazione pragmatica progressiva dello scambio in negativo e, poiché l’azione non può essere solo racconto, mythos appunto, si è presentata la necessità che fosse messa in scena, rappresentata e vista.  La ripetizione a cadenza regolare è uno dei tanti elementi che accomuna vendetta, tragedia e sacrificio, in cui la solennità del canto per il capro espiatorio diventa teatro, rappresentazione scenica, performance. Le tragedie sono caratterizzate, solitamente, dalla disputa tra due parti in cui la voce si sostituisce alle armi generando una tensione negli spettatori simile a quella che la vendetta produce in chi ne è coinvolto. La dimensione performativa della lesione dell’onore e del suo recupero risulta essere l’ipotesi più accreditata, secondo cui, il teatro affonda le sue radici nella vendetta e nel sacrificio. In entrambi i contesti, ognuno recita un ruolo prestabilito funzionale alla rappresentazione del parossismo e della risoluzione della crisi sacrificale, vittime e sacrificatori inscenano la stessa finzione tragica con un epilogo solennemente reale. In questo contesto rievocativo emerge la maschera, quella miracolosa scoperta che permette a ciascun uomo di essere chiunque e nessuno, rappresentando se stesso e qualcun altro anche nei contesti più scomodi. Ho volutamente parlato di scoperta della maschera e non di invenzione di essa in quanto ritengo che la finzione, ancor più e meglio della menzogna, sia una delle più usate strategie di sopravvivenza e mantenimento dell’equilibrio. Dunque, è inutile arrovellarsi sulla reale natura della maschera, d’altronde è nella sua natura di non averne alcuna poiché in sé le ha tutte.

Medea indossa la sua stessa maschera sia nella fanciullezza che nell’età adulta, recitando prima il ruolo della figlia traditrice e poi quello della moglie tradita. Nella tragedia senecana, la maschera dell’ira nasconde il volto materno di Medea, e, nella versione euripidea, indossa, davanti all’autorità maschile, la maschera remissiva della donna greca, mentre, al pubblico parla con il volto ferino della maga venuta da lontano. Medea, soprattutto nella versione greca, mostra come il registro vendicatorio sia la maschera più vantaggiosa del sentimento vendicativo che unisce persone e personaggi, teatro e vita sociale. Nietzsche affermava ne “La nascita della tragedia” che i Greci non sopportano individui sulla scena, preferiscono vedere e percepire i sentimenti tragici come propri per portare la magia del mito nella vita reale e conquistare la propria dimensione eroica quotidiana.

Antonella Di Nunno

Un estratto della tesi di laurea di Antonella Di Nunno, in cui si è occupata di tematiche legate alla vendetta quali  l’onore, la reciprocità e il sacrificio dal punto di vista dell’antropologia culturale, cercando di concentrare l’attenzione anche sul ruolo che hanno le donne nei sistemi a carattere vendicatorio, esaminando sempre le differenze e le analogie che intercorrono tra passato e presente, tra mito e attualità. 

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