Giuseppe Borgia, colera e Covid-19: paure e misure identiche nei secoli

by Maria Teresa Valente

La rapidità con cui dilagò l’epidemia colse un po’ di sorpresa le autorità e solo dopo una decina di giorni furono attuate le misure previste in caso di contagio per arginare la diffusione del temuto ‘morbo asiatico’, con costituzione di cordoni sanitari alle frontiere e intorno alle località colpite.

Pare un giornale di questi giorni, invece siamo nel 1836. La cronaca è stata scritta da Vincenzo Gambatesa, medico e studioso delle epidemie che colpirono la Capitanata nell’Ottocento, ed il temuto morbo proveniente dall’Asia è il colera, giunto in Italia dalla Francia ed in provincia di Foggia da un marinaio di Rodi Garganico.

I primi comuni garganici ad essere infettati, subito dopo Rodi, furono nel settembre 1836: Manfredonia, Monte Sant’Angelo e Carpino. Da qui il morbo si allargò all’intera Capitanata ed arrivò ad ottobre a Napoli,a capitale del Regno delle Due Sicilie di cui faceva allora parte.

Come reagirono i nostri avi 200 anni fa al ‘coronavirus’ dell’epoca che, guarda caso, giungeva anch’esso dall’Asia? Ecco quanto riportato in un manifesto inviato a tutti i comuni della Provincia il 4 ottobre 1836 per comunicare ufficialmente (seppur con ritardo) la presenza del colera: “I Comuni di Manfredonia, di Montesantangelo e di Carpino non hanno più comunicazioni col resto della Provincia, e tale divieto ora di nuovo solennemente si proclama. Esemplari misure di rigore raggiungeranno colui che oserà avervi il minimo contatto”. E ancora: “Che niuno abitatore lasci il recinto delle località infette! Che niun cittadino di sani paesi abbia comunicazione co’ Comuni contagiati!”.

Insomma, l’autorità sanitaria dell’epoca si espresse esattamente come oggi il Presidente Giuseppe Conte o il Governatore della Regione Puglia Michele Emiliano, primo referente sanitario sul nostro territorio.

E come si comportarono i sindaci di allora? Ce lo racconta Gambatesa: “Seppur nello sgomento generale, massimo era l’impegno delle autorità comunali di Manfredonia, così come di tutti i comuni di Capitanata, per far rispettare le disposizioni del Supremo Magistrato di Salute ‘i non riceversi chiunque fosse stato sfornito di debita bolletta sanitaria; che nessun abitante ne fosse uscito dal proprio Comune che godeva buona salute se non provveduto di bolletta del proprio Sindaco”.

In tutti i paesi furono migliorate le condizioni igieniche, prevedendo ad esempio un più ‘accurato’ spazzamento delle strade ed istituendo appositi luoghi, i lazzaretti, in cui poter tenere in isolamento i malati e in osservazione (quarantena) i casi sospetti.

Che incidenza ebbe l’epidemia? A Manfredonia, su una popolazione di 7.227 abitanti, vi furono 231 casi di colera con 94 decessi. In pratica si ammalarono più di 3 cittadini ogni 100 abitanti e di questi più di uno su tre non riuscì a salvarsi.

Nonostante questa prima esperienza (senza tenere conto delle varie ondate di peste dei secoli precedenti), non fu più semplice fronteggiare negli anni successivi il ‘ritorno’ del colera, che si ebbe ancora nel 1854, nel 1865, nel 1866, nel 1867 e nel 1886.

Nel 1854, l’Intendente ordinò ai sindaci di portare i cadaveri “direttamente dalla casa al cimitero con quanto minor clamore viene possibile”. Per intenderci, un po’ come oggi è stato disposto per i funerali, vietando baci, abbracci e condoglianze.

Nel 1887 furono sospese fiere, pellegrinaggi, solennità religiose e processioni, per “impedire l’agglomerato di molte persone pericolosissimo quando serpeggiano malattie epidemiche”. Gambatesa spiega che s’invitavano i cittadini a non mettersi in viaggio per festività di altre Province, in quanto “sarebbero stati ugualmente respinti”, e che sarebbe stato compito dei parroci “persuadere le popolazioni che tutti si fa a loro tutela e per il loro bene”. In occasione di questa epidemia, a Manfredonia il sindaco Giuseppe Grassi chiese all’allora Monsignore Antonio Prencipe di utilizzare come lazzaretto la Basilica di Santa Maria Maggiore di Siponto. L’Arcivescovo si rifiutò categoricamente, ma due anni dopo dovette capitolare alla richiesta della chiesa della Santa Croce (nei pressi della quale oggi c’è una via intitolata ‘Ospedale San Lazzaro’ a testimonianza di quell’utilizzo).

Nonostante gli accorgimenti di medici ed autorità, in Capitanata il colera si diffuse per via dei comportamenti ‘sconsiderati’ dei cittadini, che col favore delle tenebre gettavano le feci dei colerosi in strada e, a Manfredonia, anche sulla ‘scogliera’.

Di epidemia in epidemia, si arrivò al Novecento. Nonostante le esperienze precedenti, nel 1910 il colera colse ancora una volta la popolazione di sorpresa, ma stavolta le autorità erano più preparate a fronteggiare il morbo. Arrivò in Capitanata insieme ai ‘merciai’, ai venditori ambulanti e al personale dei fuochi pirotecnici ed immediatamente furono adottate misure urgenti per arginare e contrastare con immediatezza il contagio.

Un’importante novità, che proprio in questi anni andò prendendo piede pian piano in Italia, fu la costituzione di una squadra di vigilanza a sostegno delle autorità, in pratica un comitato di salute pubblica, che venne denominato Croce Verde. A Manfredonia nacque uno dei primi corpi d’Italia e vi facevano parte 36 soci fondatori, tra cui il medico Pietro Guerra, che ne venne eletto presidente, un consigliere comunale, studenti e semplici cittadini.

Durante quest’ultima ondata di colera, fu preziosissimo il lavoro svolto a Manfredonia dal dottor Giuseppe Borgia, ufficiale sanitario. Innanzitutto, la città venne divisa in cinque sezioni, in modo da essere meglio controllabili. Quindi si adottarono misure per migliorare l’igiene alimentare, personale e delle strade. Per evitare agglomerati di persone, furono annullati i festeggiamenti per Maria SS. di Siponto (si era ad agosto inoltrato), fu chiuso il cinema e si ordinò lo smantellamento degli stabilimenti balneari. E tutte queste precauzioni, prima che arrivasse in città l’infezione. Nel 1911 si registrarono alcuni casi e furono chiuse le scuole, vietata la pesca nel tratto di mare dove ‘si scaricavano acque impure e rifiuti domestici’ e ridotto il prezzo dell’acqua ‘Rionero’.

Grazie al medico Giuseppe Borgia ed al lavoro svolto dalle autorità istituzionali e dalla Croce Verde, l’epidemia del 1910-1911 fu contenuta. A Borgia è dedicata un’importante sezione del Museo Storico dei Pompieri e della Croce Rossa Italiana sito a Manfredonia, che conserva le uniformi del medico con il grembiule ancora intriso di macchie ematiche; inoltre, vi è la divisa con il berretto del capitano Oscar Compagnoni e di un ufficiale della CRI che collaborarono con il dottor Borgia per sconfiggere il colera. Da circa 70 anni la prestigiosa Accademia dei Lincei di Roma, una delle istituzioni scientifiche più antiche d’Europa, dedica un premio letterario alla memoria di Giuseppe Borgia, dando priorità (da statuto) a chi è nato a Manfredonia, in primo luogo, poi a Monte Sant’Angelo ed infine nella provincia di Foggia.

Altre epidemie hanno interessato la Capitanata negli anni ed oggi ci troviamo a fronteggiare il Covid-19, che è l’ultima in ordine di tempo, ma sicuramente non in senso assoluto.

Come diceva il filosofo Tommaso Campanella: ‘nulla di nuovo sotto il sole’, e le paure che oggi ci avvolgono sono rimaste immutate nei secoli. Ma proprio in risposta alle epidemie, sono migliorate le condizioni di vita della popolazione e si è riusciti a potenziare la risposta medica e farmaceutica. Sarà così anche questa volta? Sicuramente. Ce lo dice la storia.

#andràtuttobene

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