I funerali di Giuseppe Di Vittorio raccontati da Pier Paolo Pasolini e da “L’Unità”

by Teresa Rauzino

“Pane e Libertà – Giuseppe di Vittorio” (la storia dell’uomo che lottò per i diritti dei lavoratori) con Pierfrancesco Favino ha vinto la serata degli ascolti tv di venerdì 1 maggio 2020: Rai1 ha conquistato 3.566.000 spettatori e il 13.5% di share. Battuto in volata il film “Contagion” su Canale 5 (3.334.000 spettatori con il 12.4% di share).

Di questi tempi è una splendida notizia, perché significa che i telespettatori che non avevano visto, qualche anno fa, la fiction da cui è tratto il film, hanno potuto conoscere un protagonista importante (e purtroppo dimenticato) della storia sindacale italiana e della Festa dei Lavoratori.

Scrive lo storico Giovanni Rinaldi: “Nel mio paese natale, Cerignola, fino agli anni ’70 del secolo scorso, la mattina del Primo Maggio (“la Prèime de Magge” al femminile), l’immagine di Giuseppe Di Vittorio, presente insieme alle immagini più sacre in moltissime case di braccianti e contadini, veniva portata fuori, esposta, esibita, decorata, all’aperto, come se lo si portasse a condividere con tutti la festa, come se fosse di nuovo al fianco di quelli che aveva guidato. A Cerignola il Primo Maggio era “la festa di Di Vittorio” e tra i mille volti dei partecipanti, quello era il più riconoscibile e riconosciuto. Amato”.

Il valore sociale e culturale del lavoro fu il principio che sempre ispirò l’azione di Giuseppe Di Vittorio, leader della CGIL e della Federazione Sindacale Mondiale, nato a Cerignola (FG). L’autonomia, la democrazia e l’unità del sindacato furono i suoi principali obiettivi. Pur vivendo una stagione assai difficile, segnata dalle tensioni ideologiche della guerra fredda, Di Vittorio lavorò sempre per l’unità sindacale di tutti i lavoratori; a suo avviso, solo in questo modo sarebbe stato possibile difendere l’interesse generale della classe lavoratrice, lottando efficacemente per la sua emancipazione.

Il 3 novembre 1957 Di Vittorio moriva a Lecco. Dopo un lungo viaggio di tre giorni in treno del feretro (ad ogni stazione in cui il convoglio sostò, migliaia di lavoratori gli dettero l’estremo saluto), la camera ardente, allestita a Roma nel palazzo della Cgil, fu meta di un autentico pellegrinaggio popolare. Al corteo funebre presero parte 200.000 persone.

Quello che segue è lo straordinario reportage che Pier Paolo Pasolini scrisse in quei giorni per “Vie nuove”.

“Salgo da Porta Pia, piano e un poco svogliato. L’atmosfera è com’è ai margini degli avvenimenti pubblici: tempestosa, senza colore e quasi senza suono. Cominciano a fermarsi i primi autobus, le automobili, isteriche, qua e là, protestano con angosciosi e brevi suoni di clacson. Guardo la gente, che va verso il Corso d’Italia, come me, o che resta lì, a Porta Pia: dei giovani che non distinguo bene si sono arrampicati sul monumento al bersagliere, lasciando sotto il piedistallo una frotta di motori. Ci sono soprattutto uomini anziani, operai e impiegati, e molte donne, umili e non giovani. C’è un vento magro di autunno, con una luce settentrionale, bianca e confusa. E un grande silenzio, che i rumori, attutiti e come laceri del traffico, rendono più strano. Ormai di qua e di là del Corso d’Italia le ali della folla sono fitte: nel centro della strada passano reparti di polizia: se ne vanno come inesistenti. Non c’è inimicizia tra loro e la folla. Tutto pare come sospeso, rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie. Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città. Il Corso d’Italia è in curva, sotto le mura: e la folla che si assiepa ai margini è sconfinata. Un vecchietto si guarda intorno, intimidito, e dice a un suo compagno, che gli è accanto silenzioso: “Vengono spontanei….”. E guarda, umile, la folla degli uguali a lui. Vado ancora un poco avanti, sul largo marciapiede. Come vedo uno spiraglio, mi fermo, sotto un albero, mezzo spoglio, ormai, ma ancora pieno dell’estate romana che non vuol morire mai. Due uomini, non due ragazzi, vi si sono arrampicati, e stanno a cavalcioni dei rami in silenzio, con sotto, appoggiate al tronco, le loro biciclette. Passa di lì un giovanotto, un baldo giovanotto della campagna, e, col suo accento greve, avvicinandosi all’albero e guardando in alto pieno di speranza, dice: “Compagno, me dai na mano?”. Uno dei due sull’albero, in silenzio, piano piano, lo aiuta a salire. Davanti a me ci sono quattro o cinque uomini sui quaranta o cinquant’anni, operai, qualcuno con la moglie, che se ne sta un po’ in disparte, raccolta, quasi i funerali di Di Vittorio fossero una cosa che riguardasse soprattutto gli uomini.

Cominciano in silenzio ad avvicinarsi le corone: una folla che passa attraverso la folla, sterminate l’una e l’altra. Migliaia e migliaia di uomini e di donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di lavoro, ma neanche quelli buoni, della festa: gli abiti che indossano la sera, dopo essersi lavati dall’unto o dal fumo, per scendere in strada, sulla piazzetta. Non si vedono stracci, né i maglioni o i calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti hanno facce forti, oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la prima volta che Roma si presenta sotto questa luce. Rovesciati qui, dal silenzio che ne avvolge le esistenze, che pure sono la parte più grande della città, umilmente dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste. Il romano anarchico, scettico, scioperato, leggero ha già acquisito questo volto, questa durezza, questa umile certezza. Io non so dire quanta parte abbia avuto, in questa evoluzione, l’uomo il cui corpo viene portato oggi al cimitero. Penso grandissima se questi uomini lo sentono con tanto spontaneo e sconcertante affetto. Penso che certo non c’è bisogno che nessuno glielo dica, che hanno perduto un fratello: tanto sono pieni di muta, disperata gratitudine.

Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomi­ni che sono davanti a me, a uno a uno, alza­no il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va. Guardo quelle schiene un po’ defor­mate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle conti­nue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un’esistenza ridotta ai puro pratico, e spes­so solo all’animale, dalla corruzione dei quar­tieri dove vivono. Incalliti dappertutto. Ma come il feretro è appena passato, e le braccia tese s’abbassano, vedo dal loro atteggiamen­to che qualcosa accade dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi”. (Pier Paolo Pasolini, Roma così non l’avevo mai vista, “Vie nuove”, n. 45, 16 novembre 1957, p. 21).

In quei giorni, in ogni città d’Italia, le fabbriche, i cantieri, i trasporti pubblici, gli uffici sospesero il lavoro per ricordare Giuseppe Di Vittorio. Toccante una cronaca de “L’Unità” del 6 novembre 1957 dal titolo “Solo la Fiat ha impedito agli operai di ricordarlo”:

“Mentre Giuseppe Di Vittorio riceveva l’imponente commosso saluto di Roma, da tutta Italia cominciavano a giungere le prime notizie delle sospensioni di lavoro, attuate in migliaia di officine e di aziende per commemorare il grande scomparso. Quasi ovunque gli operai e gli impiegati si riunirono nei luoghi stessi della loro quotidiana fatica e qualcuno di loro si è alzato e ha pronunciato brevi parole. Vastissimo il cordoglio del Mezzogiorno. In Puglia, dove già nei giorni di lunedì e martedì erano state attuate sospensioni di lavoro in quasi tutte le aziende, “Peppino” è stato ricordato ancora da assemblee, in decine e decine di paesi. A Catanzaro, il lavoro è stato sospeso ieri per 20 minuti in quasi tutti i cantieri edili, nei cementifici Segni e Saima di Vibo Valentia, nelle aziende di Badolato, nella Montecatini di Crotone. Da Pescara si segnalano le astensioni dal lavoro per 5 o 10 minuti nei cantieri, in tutta la zona delle miniere della Montecatini e negli altri luoghi di lavoro. Per 15 minuti nella mattinata hanno sospeso il lavoro le acciaierie di Terni e tutte le altre fabbriche della città. A Roma la commemorazione è avvenuta in tutti i luoghi di lavoro. A parte il saluto, che in tutte le ore del giorno e della notte i lavoratori -e sono stati decine di migliaia- hanno voluto porgere personalmente e direttamente al dirigente scomparso, in tutti i luoghi di lavoro dove si pratica il ciclo continuo, e nelle aziende di trasporto, la commemorazione di Di Vittorio è stata fatta solennemente, sospendendo il lavoro per 15 minuti. Tutti i mezzi dell’ATAC, della Stefer, della metropolitana della Sab si sono fermati per 10 minuti in tutte le vie della città, mentre erano in corso i funerali. Brevi sospensioni dal lavoro, in segno di lutto, si sono avute a Firenze, Prato, Pistoia, Pisa, Lucca, Grosseto, Siena e in tutti gli altri centri della Toscana. Il plebiscito di cordoglio e di affetto ha assunto in tutto il Nord delle espressioni più intense nel corso di commemorazioni, fermate di lavoro, apposizione di firme nei luoghi di lavoro e nelle sedi delle organizzazioni sindacali. A Ferrara, alle 17, una gran folla di operai, braccianti, contadini, impiegati e cittadini, che gremiva l’Auditorium comunale, si alzava in piedi muta e commossa, mentre dall’altoparlante si diffondevano le note della marcia di Chopin. A Bologna le fabbriche si sono fermate, così pure le aziende, per varia durata di tempo e i lavoratori hanno ricordato il grande dirigente sindacale. Minuti di silenzio si sono osservati nelle fabbriche di Milano, Lecco, Vigevano, eccetera. Ieri sera al consiglio comunale di Milano il Sindaco, e successivamente tutti i capogruppo, hanno degnamente commemorato Di Vittorio. Soltanto a Torino si è verificato un episodio gravissimo. La direzione della Fiat ha diramato una circolare a tutte le sue fabbriche per vietare che Di Vittorio venisse celebrato dai lavoratori. La disposizione era redatta in tono freddo e crudele, quasi come una sfida al sentimento di libertà dei lavoratori; essa valeva anche per quelle fabbriche – ed erano la maggioranza- dove la sospensione di lavoro e la commemorazione erano state decise unitariamente dalle commissioni interne e da tutti i sindacati. Il gesto del monopolio torinese ha suscitato una indignazione profonda e unanime: il cuore di ogni operaio, al di là delle divisioni politiche, ne è rimasto ferito, perché ciascuno ha potuto vedere nello spietato cinismo di Valletta l’atteggiamento del padrone che considera l’operaio una macchina per il suo profitto, non un uomo coi suoi sentimenti, i suoi affetti, il suo dolore”.

In foto, Manfredonia.-Novembre-1957-Eden-Teatro-sede-Camera-del-Lavoro-Il-catafalco-in-ricordo-di-G.-di-Vittorio (archivio Franco Rinaldi)

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