L’eccidio di Candela: quando la lotta per il diritto al lavoro partiva dalla campagna

by Germana Zappatore

Li vedevate dispersi nei campi, più bruti che uomini, sotto il sollione scottante o sotto la pioggia dirotta: (…) abbruttiti dal lavoro, ingialliti dalla malaria, (…) per terra con in mano un pezzo di pane nero, (…) soggetti alla schiavitù del padrone, che su essi esercitava diritti feudali (…). Lavoravano, si ammalavano, erano cacciati via, morivano, la protesta si spegneva sul loro labbro e non sapevano che invocare l’aiuto di un Dio, che li aveva fatti nascere per soffrire. Queste le condizioni (…): supina obbedienza al padrone, pazienza nei patimenti, tutto ciò frutto di ignoranza accresciuta da una iniziale educazione religiosa, poiché essi non sentivano che la sola voce del prete nelle chiese”.

Così vengono descritti i contadini del Mezzogiorno d’Italia in un articolo del periodico socialista ‘Il Mefistofele’ datato 2 febbraio 1909. Insomma, ad inizio Novecento i contadini se la passano tutt’altro che bene: salari bassi, lunghi periodi di disoccupazione, giornate di lavoro che possono arrivare fino a 14 ore, cure inadeguate e mancanza di case (la maggior parte dei lavoratori vive in pochi metri quadrati senza luce e servizi igienici). Inoltre il potere politico è nelle mani degli agrari che ovviamente hanno tutto l’interesse a preservare privilegi e ricchezze a discapito delle condizioni di vita del resto della popolazione. Non sorprende, quindi, che già alla fine dell’Ottocento al Sud nascano la Leghe di resistenza dei lavoratori.

Anche in Capitanata. Infatti il primo congresso dei contadini pugliesi si svolge a Foggia il 5 e 6 aprile del 1902, ma nel piccolo borgo di Candela già agli inizi del 1901 sorge la Lega di Resistenza dei contadini con a capo il figlio di un farmacista, un certo Dionisio Magaldi che in un anno riesce a mettere insieme 800 iscritti. Siamo nel 1902 e sta per prendere il via quella catena di eccidi che per diversi anni insanguinerà il Mezzogiorno (il primo sarà il 5 agosto del 1902 a Cassano Murge) nel tentativo di reprimere scioperi e agitazioni. Eccidi che rimangono impuniti e che spesso vedono gli assassini ricevere persino l’encomio solenne, come accade nel caso di Candela.

Tutto comincia a maggio con lo sciopero dei contadini candelesi per ottenere un aumento salariale dei giornalieri. L’agitazione ha successo: i lavoratori ottengono addirittura il doppio di quanto chiesto e la Lega decide di puntare alto. A metà agosto, infatti, la Lega del borgo dauno chiede agli agrari di sostituire i contratti annuali con quelli ‘a giornata’ che, tra l’altro, non prevedono più una retribuzione mista (parte in contanti, parte in generi alimentari, parte in concessioni terriere). La proprosta viene respinta: accettarla significherebbe, infatti, riconoscere l’autorità della Lega.

Così l’8 settembre del 1902 (il giorno prima era scaduto il contratto annuale) i soci della Lega decidono di astenersi dal lavoro. Tutto fa pensare ad un pacato atto di protesta, ma la situazione prende una brutta piega nelle prime ore del pomeriggio. A Candela stanno arrivando alcuni carri con a bordo lavoratori “dissensienti dalla Lega” provenienti da altri paesi e reclutati a buon mercato per sostituire gli scioperanti. I contadini candelesi li intercettano e pacificamente riescono a bloccarne alcuni, ma la tragedia è dietro l’angolo. Durante un posto di blocco avviene uno scontro fra il brigadiere Enrico Centanni (i punti di accesso alle campagne erano presidiati da pattuglie di carabinieri) e due contadine che vogliono fermare un carro. Fra i tre si intromette un uomo (le cronache del tempo parlano del calzolaio Carlo Lo Prete, un pregiudicato estraneo alla Lega) che colpisce alla testa il brigadiere. Inizia una sparatoria da parte dei militari e alla quale la folla dei contadini risponde con una sassaiola. Nel conflitto muoiono 5 persone, tutti popolani e fra loro c’è anche il calzolaio. Ma non è finita. Il brigadiere riesce a fuggire dalla baraonda, però lascia dietro di sé una scia di sangue: durante la fuga alla ricerca di un riparo spara ad altre 4 persone (tra cui una donna) che secondo le testimonianze del tempo nulla avevano avuto a che fare con il tumulto. Il bollettino ufficiale sarà di 8 morti, molti feriti e 181 lavoratori arrestati. Fra questi ultimi c’è anche il capolega Magaldi.

All’indomani dell’eccidio le reazioni sono le più disparate. Se da una parte la stampa è compatta nel condannare l’eccidio, dall’altra il Consiglio Comunale di Candela approva un ordine del giorno in cui definisce “selvaggia” la condotta dei contadini mentre il comando dell’Arma dei Carabinieri concede l’encomio solenne al brigadiere Centanni. L’eccidio, però, non resta “impunito”. Nel gennaio del 1903 a Lucera va in scena il processo che vede sul banco degli imputati 82 lavoratori (fra cui una decina di donne) che devono rispondere di “attentato alla libertà del lavoro” e di “violenza e resistenza agli agenti della forza pubblica”. Fra loro c’è Magaldi che viene accusato anche di avere una sorta di “libro nero” nel quale “teneva segnati i nomi dei proprietari dai quali la Lega doveva trar vendetta”. Il 30 gennaio il Tribunale emette la sentenza: 34 contadini vengono condannati ad una pena detentiva compresa fra i tre e gli undici mesi, il capolega invece viene assolto. Il brigadiere Centanni e gli altri Carabinieri che avevano sparato sulla folla ne uscirono ‘puliti’. Basti pensare che Giolitti nel dibattito alla Camera del 15 novembre 1902 proprio sull’eccidio di Candela (allora era Ministro dell’Interno) parlò del brigadiere in questi termini: “Questo carabiniere aveva l’ordine di garantire la libertà del lavoro, ha esposto la sua vita per eseguire l’ordine avuto e fare il suo dovere, e meritava un elogio (…). L’elogio non gli fu dato per aver sparato, ma per aver fatto il suo dovere esponendo la vita per la tutela dell’ordine pubblico”.

La pratica degli eccidi proletari, quindi, continuerà indisturbata e riproponendo sempre lo stesso copione: fucilazioni di massa e nessuna condanna per gli assassini.

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