Ma che si può fare di sera alle Trèmiti? “Andiamo a sentire le Diomedee”

by redazione

Pubblichiamo la seconda puntata del reportage tremitese di Matteo De Monte. La prima parte al link in basso.

No, questo albergo è lontano dai miei gusti, troppo cromato, troppo lustro e moderno: fiuto l’atmosfera delle ferie organizzate a tavolino, dell’estate scritta a gennaio nelle partite doppie delle compagnie turistiche. Meglio rifugiarsi alla «Carluccetta», una pensioncina nascosta nel verde, fra pergolati di glicine su cui ronzano avide le vespe.

Il conforto che offre è casalingo, senza pretese: acqua corrente, una piccola doccia, lo specchio tondo sul cassettone di quercia, la rama di un noce che occhieggia alle stecche della persiana: vedo i pulcini razzolare sull’aia, sento l’asino ragliare nella stalla e mi consolo: dunque per gli uomini c’è ancora speranza. Andrò al grande albergo soltanto per l’aperitivo: il bar è ben fornito, nelle sedie a sdraio, sotto gli ombrelloni, le dattilografe di Dublino si riparano dai riverberi coprendo il naso con un cappuccetto di nylon che le fa rassomigliare a giovani uccelli da preda. Carluccetta mi vizia, ogni volta che torno. Ha capelli biondo-grigi, piccole efelidi sulla pelle chiara, occhi azzurri, e la parlata napoletana. La prima volta m’informai: «È forestiera?». 

«Tremitese sono». «E perché parla napoletano?». «Perché qui tutti parliamo così». Le isole Trèmiti sono lontane poche miglia dal massiccio del Gargano, ma a San Domino e a San Nicola, invece della larga e strascicata cadenza pugliese, risuona l’ammiccante dialetto partenopeo, un poco inasprito dalla gutturale contaminazione foggiana, e la maggior parte degli uomini si chiamano Aniello o Antonino.

È la vecchia eredità dei Borbone che mandavano qui, a scontar peccati, galeotti e rivoluzionari, per cui le Trèmiti sono rimaste napoletane nei caratteri di fondo, a gloria di Masaniello, pesciaiolo populista e ribelle dalle incerte fortune. Carluccetta sa poco di tutto questo, ricorda soltanto i confinati fascisti cui faceva da mangiare negli anni trenta quando le casette, nella pineta, si chiudevano a doppia mandata di catenaccio al calar del sole, e le guardie sparavano a vista sulle barche che ardissero sortire dalla cala dopo l’Ave Maria. Tempi tristi, ma ancora innocenti: il turismo di massa non aveva dissacrato il Gargano, il Promontorio soffriva per l’isolamento dal resto della Penisola, le strade erano scarse e disagevoli, ma la gente serbava intatti quei segni di sensibilità dura e gentile, ironica e intelligente, che ancora affascinano, talvolta, lo straniero che cala nel Sud.

Per noi autoctoni furono anni di vacanze selvatiche e felici. Scarse locande, rare trattorie, case ospitali, lunghe cavalcate nelle arene deserte, ed un mondo favolosamente immoto, in cui tornando ci si poteva ritrovare e riconoscere. Poi Romano Conversano, dopo la guerra, cominciò a inseguire le comete di luce che il sole tracciava sulle case di Peschici, e il Nord conobbe dalle sue tele i colori tenui, la luminosità rarefatta dei rosa-verde di certi tramonti: tutti provarono il desiderio irrefrenabile di tuffarsi in quella luce segreta e misteriosa. Oggi, anche i garganici, per aprire una gargotta abbatterebbero cento pini, distruggerebbèro il mirabile tessuto urbanistico dei loro paesini formatosi per germinazione naturale attraverso i secoli. A Peschici le macchine aspettano il segnale dei semafori; il pretore notifica diffide e ingiunzioni ai costruttori di attici abusivi; una stanza costa duecentomila lire di affitto mensile, fra giugno e settembre. Con i vantaggi economici dilegua e muore la virtù genuina della gente; la cortesia si tramuta in asprezza, i contadinelli hanno imparato a muovere le anche nei blue-jeans; i parroci non hanno altro sogno che costruire chiese moderne, dopo aver distrutte quelle antiche che dànno un perfetto equilibrio architettonico ai villaggi. Anche Rodi si sgretola nelle brutture delle sopraelevazioni pacchiane; e San Menaio, un tempo ridente e chiara come un acquarello, annega nell’edilizia da pollaio condominiale. Restano le isole, ma sarà bene affrettarsi a vederle, prima che le ruspe finiscano di sventrarle.

Giovanni, il marito della Carluccetta, mi porta in barca a scoprire uno scorcio nuovo al ronchione bianco della Capraia, o l’ombra calante dalla Badia-fortezza, sospesa nell’arcigna rupe di San Nicola. Il motore borbotta appena, senza incrinare il silenzio del mare; sfioriamo brevi darsene con spiaggette esili, fatte d’un filo di rena, bianca come travertino macinato. Alla Grotta delle Viole Giovanni dice: «Sporgiti, guarda». Nell’acqua limpida il sole mette disegni luminosi e irreali. È come accarezzare con gli occhi un tappeto persiano: il viola cupo s’intreccia al verde e all’azzurro attorno alle madrepore abbarbicate ai fondali. E basta un colpo di remi a mutare l’arabesco: la trama si disfa, i fili di luce, guizzando, trovano nodi e accoppiamenti diversi; resta a pel d’acqua soltanto il riflesso del cielo.

Trascorro così i caldi mattini di questa miracolosa estate alle Trèmiti, nuotando in piccoli deserti bacini. Non appena i sub si fanno numerosi, invertiamo la rotta, cerchiamo pace altrove. Sul mezzodì, alla pensione, si ripete il rito culinario dell’aragosta. Voglio essere presente quando arriva il canestro coi lunghi tentacoli bruni che si agitano furibondi negli spasimi dell’asfissia. L’aragosta delle Trèmiti, a differenza di quella delle coste greche, ha la corazza scura, quasi nera. Carluccetta l’afferra, e ancora viva la getta nel pentolone che bolle. A poco a poco la corazza schiarisce, fino a diventare di un rosso corallo. Come si può mai cucinarla se non alla tremitese? Olio d’oliva, soffritto di cipolla, qualcosa che ricorda l’armoricaine, con una dose di spezie più leggera. Assaggio la scamorza di San Nicandro molle di latte, sbuccio un fico che è rosso fuoco, e il mio pranzo è finito.

Una volta soddisfatta la golosità, trascorro i tardi pomeriggi a San Nicola, lungo le scalee che portano alla Badia. Qui i benedettini alzarono il cenobio-fortezza, poi i cistercensi abbandonarono sovente l’altare per correre alle colubrine piazzate fra le merlature, a sparare nelle barbe dei turchi. Al centro dell’aspro maniero s’apre la chiesa di Santa Maria a Mare con il leggiadro portale del rinascimento, e dentro le navate si ammira il più antico e mirabile crocifisso bizantino che sia mai stato dipinto in Italia. C’è anche un polittico in legno policromo scolpito, di scuola veneta, forse dovuto a uno dei Vivarini; e un pavimento a mosaico, assai malandato, le cui sezioni superstiti lasciano immaginare quale fosse il suo splendore, attorno al mille, quando i benedettini provvidero a costruirlo.

Ma che si può fare di sera alle Trèmiti, dopo aver meditato sul balenio delle stelle fra i pini? Dall’albergo arriva il ritmo sincopato di un’orchestra e penso sbigottito ai vestiti, alla cravatta. Salvatore il tassista s’approssima con la sua jeep e propone la scalata alla vetta, lungo un tratturo ripido come una scalinata. «Andiamo a sentire le Diomedee», dice, e apre lo sportello della vettura. Al ciglio dello strapiombo, bianco nel tramonto, stormi di gabbiani svolano sulle rupi, e gridano alla notte che sta per sopraggiungere. Non è grido; i gabbiani piangono; il loro è un lungo querulo gemito, come di bimbi che chiedano tenerezza e protezione, impauriti dalla tenebra. Questi uccelli sono sacri a Diomede, il compagno di Ulisse, nella guerra di Troia. Pare che egli sia morto qui, in queste isole di sogno, e i pronipoti di Masaniello mostrano ai turisti persino la sua tomba, nella necropoli sugli spalti di San Nicola. Lì attorno dovrebbe essere sepolto anche il bottino che tolse a Priamo. Ma cercarlo, forse, è troppo faticoso, almeno per la pigrizia dei napoletani trapiantati in Puglia. Agli altri, basta il mare dell’isola. Questo mare fondo, non contaminato.

L’ AUTORE

Matteo De Monte (Cagnano Varano 1920- Foggia 1980). E’ stato inviato speciale del Messaggero, dove ha avuto come maestri Francesco Maratea e Mario Missiroli.

E’ stato nel giornalismo dal 1939. Ha viaggiato in Africa, Asia, Europa e America in occasione di grandi avvenimenti della cronaca e della politica: dalla rivoluzione d’Ungheria al Congo, dalla crisi di Peron ai fatti militari d’Algeria e delle Antille, fino agli avvenimenti dell’ occupazione sovietica di Praga e della guerra fra Arabi e Israeliani.

Ha vinto il “Premio Marzotto”, il “Bagutta” per il giornalismo, il “Premio Internazionale Roma”, il “Premio per la difesa della Natura” del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Elzevirista, autore di racconti, ha collaborato alla TV e a numerose riviste.

Peccato che il Comune di Cagnano Varano, dove è nato, abbia, finora, dimenticato di ricordarlo…

                                                                                                                 g.m.

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