Primo Maggio col quadruplice omicidio del Bacardi: la strage cancerogena e radioattiva che cambiò Foggia. Prima parte

by Gabriele Rana

Era la mattina del primo maggio del 1986. Alle sette in punto, come da cinque generazioni a quella parte, il vecchio proprietario della macelleria “Da Roberto” e suo figlio si apprestano, assonnati ma carichi di energia, a dare inizio al proprio lavoro che in famiglia si svolge in Piazza Mercato, alle spalle di Via Arpi.

Durante le prime ore di luce del giorno, Foggia si tinge di colori cinerei e rossastri e l’aria umida data dalla rugiada fa apparire i palazzetti del diciottesimo secolo della città vecchia bagnati, quasi unti: è uno spettacolo, vedere la città in quell’ora del giorno. Ma padre e figlio non potevano permettersi di pensare all’affascinante scorcio della città in quel momento, perché c’è una giornata di lavoro da affrontare ma, soprattutto, perché dinanzi al loro decennale luogo di lavoro trovano uno scenario completamente differente da quello consueto. Davanti al circolo privato Bacardi ci sono poliziotti, carabinieri, cronisti e curiosi. Il proprietario della macelleria oggi non racconta molto dei dettagli, ma è bello immaginare che lì fossero presenti due dei più grandi narratori, è giusto e doveroso definirli così, della storia della Foggia dello scorso secolo: uno un fotografo, Antonio Pipino, l’altra una penna di punta della Gazzetta del Mezzogiorno, Gianni Rinaldi, entrambi intenti a riportare con i loro mezzi uno degli avvenimenti che avrebbe cambiato per sempre la storia della mala locale. Il macellaio racconta che già da quel mattino del primo maggio del 1986 aveva compreso che quel che accadde non fu un avvenimento di poco conto: non si trattava di una delle normali scaramucce tra bande locali. Prima di raccontare gli avvenimenti della strage del Bacardi, che andrebbe ricordata in realtà come il quadruplice omicidio del Bacardi, bisogna fare un passo indietro e cercare di comprendere che mondo fosse quello del 1986 e qual era il clima nella società foggiana dell’epoca.

Una miriade di avvenimenti possono essere ricondotti a questo anno. Per gli appassionati del Festival di Sanremo, quello è l’anno in cui Eros Ramazzotti vinse con Adesso tu. LaRepubblica compie dieci anni dalla sua fondazione e supera in copie vendute lo storico Corriere della Sera. Ma tra tutti gli eventi legati al 1986, soprattutto uno colpì nel profondo l’intera popolazione europea e mondiale, al punto da generare un vero e proprio clima di timore: il disastro di Chernobyl. Ed è esattamente una settimana dopo quell’incidente, mentre sulle prime pagine dei giornali se ne parlava ancora e tra la popolazione si temeva per la presenza di elementi cancerogeni e radioattivi negli alimenti a causa dello spostamento della nube tossica, che si consumò il delitto alle tre del mattino del giorno della Festa dei lavoratori.

Quella notte, a uno dei tavoli del Bacardi erano seduti in sei. I loro nomi sono oggi caduti nel dimenticatoio per chi della strage non ricorda e non conosce nulla, ma per cinque anni, fino alla conclusione di tutti e sette i processi, furono stampati più volte sulle pagine dei giornali che si occuparono della strage: Giovanni Rollo, Pompeo Rosario Corvino, Pietro e Leonardo Piserchia, Gennaro Manco e Antonietta Cassanelli. Di questi sei, solo due sopravvissero a quella notte, quando i tavoli furono ribaltati e il piombo perforò le carni delle vittime. Tutti questi, che per chi li legge ora possono sembrare solo nomi su uno schermo, erano legati chi più chi meno al clan Laviano, uno dei più importanti dell’epoca, che con il clan Agnelli-Rizzi si spartiva l’intera città. Ed è proprio nello scontro tra i due che va ricercata la motivazione della strage. Giuseppe Laviano era molto giovane all’epoca dei fatti, soltanto 26 anni, un’età da laureato o laureando, ma era già considerato un capo carismatico: poteva contare su una cerchia ristrettissima di affiliati che tra di loro si chiamavano fratuzzi e, proprio come gli apostoli con Cristo, gli stavano sempre intorno per proteggerlo. Tra questi possono essere ricordati il fratello Nicola, Pompilio Adelchi e altri. La giovane età, un carisma incredibile e una forte impulsività gli avevano permesso di costruire il suo piccolo impero che controllava le piazze di spaccio del foggiano e che cercava di estendersi all’esterno della città. Il sistema di affiliazione era differente rispetto a quello del clan opposto, che aveva metodi simili a quelli camorristici applicati tuttora. Intorno all’area dei fratuzzi circolavano diversi alleati e tra questi c’era Gennaro Manco, punto cardine per comprendere tutta la vicenda di quella notte sanguinosa.

«Avevo 34 anni all’epoca. Circa un anno prima della strage, con un mio amico e un’altra ragazza avevamo deciso di aprire il circolo privato Bacardi. Il successo fu immediato. Aprivamo molto presto e il locale era frequentato da molta gente perbene. L’avevamo diviso in due stanze, separate soltanto da due divisori in marmo. La prima parte era un luogo per stuzzicare qualcosa, mentre l’altra parte era adibita a piano bar. Era tutto bianco. All’ingresso c’era un banco dove l’altra socia offriva quello che aveva cucinato a casa. Stavamo bene. Penso che la nostra rovina fu il Metropoli». A parlare è Aldo Ciavarella, pianista e fondatore del Bacardi. Ha ancora impresse nella mente le sanguinose immagini di quella notte e ha gentilmente concesso a bonculture un’intervista esclusiva per raccontare quel che ha vissuto quella sera. La narrazione e le parole del’intervistato continuano nella seconda parte che verrà pubblicata la settimana prossima.

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