Quando Montanelli salvò Gervaso dalla depressione

by Fabrizio Simone

Nel corso della sua vita Roberto Gervaso ha conosciuto più volte la depressione. La prima crisi, all’età di 23 anni, riuscì a superarla con l’aiuto di Indro Montanelli. Chi meglio di lui, che soffriva ciclicamente di terribili depressioni bipolari alternando angoscia ed euforia, arrivando persino ad accarezzare l’idea del suicidio, avrebbe potuto salvarlo?

Appresi i primi consigli dal giornalista di Fucecchio tra una pizza alle acciughe e una fugace conoscenza dei due merli indiani del Maestro nella sua abitazione di piazza Navona, nel 1960 Gervaso accettò la borsa di studio offerta dall’Università del Michigan per due anni. Ma a Gervaso non bastarono le lezioni di giornalismo e le distrazioni offerte dai compagni di corso, come quelle della ricca e occhialuta Giuditta, disposta a convolare a nozze col ragazzo torinese, per dimenticare la notte d’amore trascorsa quattro anni addietro con una bella quarantenne francese che si faceva chiamare Babette, in una pensioncina per autotrasportatori e coppie clandestine non molto distante dalla stazione del capoluogo piemontese. Babette, respinta dal disoccupato Gervaso (come mantenere la donna in un’eventuale relazione?), lasciò la Locanda del Camionista in un turbine di follia: dichiarò che, una volta in Francia, la sua delusione avrebbe potuto trovare sfogo soltanto nelle fredde acque della Senna.

All’idea di Babette spirata col cuore infranto, sostenuta da Gervaso all’acuirsi della crisi, il preside della facoltà di Giornalismo e l’assistente sociale interpellato risposero autorizzando il ricovero del futuro scrittore nella clinica psichiatrica dell’università. Diagnosticata una psiconevrosi con spunti ossessivi, gli furono somministrati tranquillanti e sonniferi, ma i risultati furono tutt’altro che positivi: persi cinque chili in cinque giorni, Gervaso fu rimpatriato dopo un mese di degenza. La lettura di Seneca (amato sin dal liceo) e l’ascolto di Bach non riuscirono a scacciare l’immagine del corpo di Babette inabissato, e le passeggiate lungo il Po ispirarono soltanto l’idea di raggiungere l’amata attraverso i flutti oscuri. Ormai in preda ad un’inarrestabile depressione, non rimase che affidarsi ad una vecchia conoscenza di sua madre, una psicologa di mezza età ingaggiata con l’intento di convincerlo che Babette stesse bene e fosse tornata tra le braccia del marito. Ma neppure lei poté fare più di tanto.

La notizia della depressione di Gervaso non sfuggì a Montanelli, sollecitato dai genitori preoccupati.     Il popolare giornalista chiamò a casa del suo giovane ammiratore per tranquillizzarlo. Affermò di ricevere,  più o meno ogni vent’anni, la visita della stessa malattia, ereditata da sua madre, Maddalena Doddoli, e di conoscere il modo più immediato per guarirlo: urgeva assumere Gervaso al Corriere della Sera. Assunto a tempo indeterminato, Gervaso si trasferì a Milano e iniziò ad occuparsi di cronaca nera, facilitato dalla crescente amicizia con Montanelli (quante volte andarono a pranzo o a cena da Bice, ordinando cannellini all’uccelletto e una costata alla fiorentina? ). I costanti attacchi di panico e di pianto, dopo un anno e mezzo d’attività, convinsero Montanelli a chiedere il trasferimento di Gervaso presso la redazione romana del quotidiano.

La vita frenetica della Capitale riportò Gervaso alla serenità. Alla cronaca nera in breve tempo si sostituirono la cronaca rosa e bianca, per le quali Gervaso iniziò a mostrare una spiccata attitudine. Proprio come per le amanti occasionali – avvocatesse, psicanaliste, intellettuali marxiste, operaie e libertine d’ogni rango – che popolarono alacremente l’alcova spesso improvvisato del giornalista torinese, in un caso obbligato perfino ad accettare una conversione al buddhismo pur di giacere con una bella divorziata soggiogata dal fascino del Dalai Lama e di Siddharta (ma Gervaso fu fortunato perché la ghiotta bevitrice di succo di mirtillo indiano partì la settimana seguente per il Tibet e i due non si videro mai più).

Recuperata la tranquillità, a Montanelli non rimase che proporre a Gervaso un’occasione golosa. Fermi al semaforo verso piazza del Parlamento, in attesa del verde, Montanelli mise una mano sulla spalla di quello che è considerato il suo allievo più importante: «Robertino, scriviamo insieme la Storia d’Italia?». Dirigendosi verso Montecitorio, Montanelli precisò le sue intenzioni: «Ti terrò la mano, ti assegnerò i capitoli, io farò i miei, li confronteremo e cominceremo insieme, con la doppia firma e i diritti d’autore divisi a metà, questa grande avventura di divulgazione. Gli italiani la storia non la sanno perché a scuola gliela insegnano male, contaminandola con l’ideologia. Ho già pensato al titolo del primo volume: L’Italia dei secoli bui. A me la parte fino alla caduta dell’Impero romano nel 476; a te il resto, fino all’anno Mille. Non dimenticare che scriviamo per tutti, ma più per lo studente, che farà bene a leggere i nostri volumi di nascosto, che per i suoi insegnanti, che non ci leggeranno mai. Un po’ per diffidenza e molto per invidia. Quanto agli accademici, ci spareranno contro a palle incrociate, considerandoci abusivi nei pascoli dove solo loro si sentono autorizzati e legittimati a brucare. Noi dobbiamo infischiarcene perché, dopo Cesare Cantù, nessuno si è mai preso la briga di portare la storia d’Italia in tutte le case. Domani mattina alle nove vieni da me e butteremo giù un indice e ci divideremo i compiti».

I sei volumi firmati dalla coppia Montanelli/Gervaso (L’Italia dei secoli bui, L’Italia dei Comuni, L’Italia dei secoli d’oro, L’Italia della Controriforma, L’Italia del Seicento e L’Italia del Settecento) riscontrarono un successo clamoroso. Con i diritti d’autore Gervaso poté immergersi ancor di più nella dolce vita della Capitale, sperperando grosse cifre persino in abbondanti mazzi di rose da regalare alle sue spasimanti. Forse il testimone più sincero del loro successo è proprio il fattorino incontrato a Ponza, al quale Gervaso provò ad allungare mille lire di mancia. Il ragazzo dei bagagli rifiutò i soldi dicendo: “Non posso accettarli, Montanelli e lei mi avete aiutato a capire e amare la storia”. Ma questa è un’altra storia.

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