Ricordando Raffaele Licinio: l’ultimo viaggio tra castelli medievali

by Teresa Rauzino

Il  4 febbraio 2018 ci ha lasciato il prof. Raffaele Licinio, medievista di livello internazionale. Con ironia e leggerezza ha reso accattivanti temi solitamente ostici, regalandoci bellissime pagine di storia. Non dimenticheremo mai la sua lotta contro i pregiudizi e gli stereotipi che sul Medioevo e nel mondo contemporaneo regnano sovrani. Non scorderemo mai i suoi frequenti interventi (purtroppo inascoltati) per salvare e per riportare alla fruizione collettiva l’abbazia di Kalena, in agro di Peschici. 

 Licinio è stato professore ordinario di Storia medievale e direttore del Centro di Studi Normanno-Svevi presso l’Università di Bari, concentrando i suoi interessi di ricerca sul Mezzogiorno medievale principalmente su due filoni tematici, sino a qualche anno in ombra o insufficientemente dibattuti dalla storiografia medievistica: la storia agraria regionale, esaminata nel contesto della storia agraria meridionale e mediterranea, e la storia delle strutture di fortificazione, all’interno del “sistema castellare” del Sud Italia. 

Nel 2010, ebbi il grande onore di presentare, a San Nicandro Garganico e a Lucera,  il bellissimo volume di Raffaele Licinio “Castelli medievali”, una vera pietra miliare della storia del Mezzogiorno medievale,  ripubblicato in edizione aggiornata da “Caratteri Mobili”. Una storia dei “Castelli medievali” pugliesi e lucani, raccontata al di là degli stereotipi e delle leggende imperanti… Ve la ripropongo.

Dietro ogni castello medievale – esordisce Raffaele Licinio nella prefazione a “Castelli medievali”-  c’è anche l’immagine dei castelli. tante immagini di castelli, prodotte in secoli estranei al Medioevo e frutto di sintesi culturali diverse. Castelli gotici, castelli romantici, o pieni di misteri, avventure e trabocchetti. Immagini sconfinate oggi, nell’immaginario collettivo, nella dimensione fuorviante del fantastico, dello stereotipo o peggio  dell’esoterismo. Il trionfo mediatico  di una serie di film e di trasmissioni televisive (“Voyager” e “Misteri”), con i loro paradossali castelli simil-piramidali, contenitori di improbabili Graal e di stupefacenti messaggi provenienti dai  Templari o  dallo spazio,  rende indispensabile il recupero, nella cultura diffusa, della dimensione storica autentica dei castelli. Ecco il senso della riedizione di questo libro di Licinio: far capire come il castello meridionale, fulcro di un vero e proprio “sistema castellare”, sia divenuto metafora del potere. Cifra di un “sistema di governo” efficace e duraturo. Nel Mezzogiorno bassomedievale, la realizzazione del sistema castellare è attribuita a Federico II, ma secondo Licinio, questa tesi, se non errata, è parziale: furono i Normanni, e soprattutto  Ruggero II, fondatore del loro regno, a dare centralità ad un fenomeno già in atto, valorizzandolo e ponendolo al servizio della monarchia.

L’accordo di Melfi della fine del 1042 ne segna l’avvio: 12 signori normanni si assegnano città pugliesi e lucane, conquistate o da conquistare, in ogni caso da riattrezzare militarmente.  In Puglia furono ristrutturati 7 castelli e 29 furono edificati  ex novo.

Verso la metà del secolo XII , un musulmano di nome Edrisi, geografo alla corte di Ruggero II, sottolineò l’interdipendenza tra sicurezza e sviluppo economico.

Gli effetti che il processo di incastellamento di età normanna produsse nel territorio non furono quindi soltanto di ordine militare. La difesa fu solo uno degli elementi che motivò l’incastellamento, un “sistema” complesso di relazioni sociali, istituzionali, politiche e urbanistiche.

Attrezzare militarmente un territorio significava aumentarne le potenzialità agrarie e insediative.

Questa logica ispirò anche l’incastellamento svevo. Vincolato ma anche esaltato da un apparato burocratico capillare ed efficiente, il “sistema castellare” federiciano fu elemento fondante di un programma più complesso, decisivo per il  governo del territorio. Non una rottura, ma un salto di qualità, rispetto al passato. Come Ruggero II, anche Federico capì che, nel regno, la possibilità di governare e custodire la pace passava per il rigido controllo di ogni forza centrifuga, in primo luogo di quelle baronali. Castel del Monte fu magnifico esempio di «pietrificazione dell’ideologia del potere», di «manifesto della regalità», di identificazione immediata del potere svevo.

Il numero dei castelli federiciani fu rilevato, per gli anni 1241-1246, dallo “Statutum de reparatione castrorum”, un’inchiesta  sulle località tenute ad assicurare il restauro e l’ordinaria manutenzione dei castelli regi.  Lo Statuto non riporta i castelli feudali, le fortificazioni e le cinte murarie delle città e delle comunità ecclesiastiche, le torri urbane e rurali. Sui circa 250 edifici censiti 111 riguardano la Puglia e la Basilicata, suddivisi in 69 castra e 42 domus. In pratica quasi la metà delle strutture castellari del regno. E’ stato calcolato che dal 1220 sino alla morte di Manfredi (1266), siano stati ampliati o mantenuti in efficienza 34 castelli preesistenti, e altrettanti siano stati edificati ex novo. Cifre da ridimensionare, soprattutto quelle relative ai castelli di nuova costruzione. In realtà Federico  II ne fece innalzare ex novo solo a Foggia, Lucera, Trani, Castel del Monte, Gravina, forse ad Apricena e Brindisi.

Provvedere alle necessità di tutte le fortezze demaniali del regno comportava onerosi impegni finanziari non indifferenti anche per Federico II . Ecco allora gli appunti mossi al sovrano, tra il 1223 e il 1225, durante la costruzione del palazzo imperiale di Foggia, dall’anziano e saggio giustiziere di Capitanata Tommaso di Gaeta, per l’elevato numero di fortezze, mura, torri, opere di difesa, costruite su monti e colline senza badare a spese, con il risultato di appesantire i carichi fiscali sulle popolazioni. «Non è indispensabile – scrive Tommaso a Federico – costruire fortezze così in alto, fortificare i ripidi colli, sbarrare con mura i pendii dei monti e circondarle di torri: anche senza una così elevata quantità di fortezze si può ben governare. Esiste una sola fortezza veramente inespugnabile, ed è l’amore dei sudditi, pronti a precipitarsi a migliaia contro le lance avversarie».

Nella Puglia angioina furono costruiti ex novo 19 castelli (tra cui Peschici), 63 vennero ristrutturati o riparati,  6 disattivati. Carlo I d’Angiò e, in parte, suo figlio Carlo II, conservarono l’impianto normativo del sistema castellare normanno-svevo. Ne adeguarono le strutture e ne ampliarono  le funzioni, secondo le necessità del momento. Un limite angioino fu lo smembramento di parte del demanio, in passato gelosamente difeso dagli Svevi, a favore dei baroni di origine francese che li avevano sostenuti nella conquista del Sud Italia.

Alla fine del secolo XIII, il motto “Nessuna città senza castello regio!” appare rovesciato. Il decastellamento, lo smembramento di ciò che un tempo fu dimostrazione di potere del sovrano, diventa esigenza vitale di sempre più agguerrite forze periferiche (dal popolo cittadino al barone). Una fonte abruzzese, la “Cronaca aquilana rimata” di Buccio di Ranallo ci mostra come, alla fine del 1293, guidati da un capopopolo, Niccolò dall’Isola, gli Aquilani si ribellano a Carlo II, ne sconfiggono e ne espellono le truppe, ne abbattono i castelli. È il popolo cittadino che scende in campo contro il potere centrale: una forza organizzata, coesa, consapevole di sé, che si riunisce in un “parlamento”, verifica i propri interessi in “un granne radunamento”, individua obiettivi comuni, trovando il coraggio (le “coragera”), per lanciare un assalto coordinato e in massa ai simboli primi e più evidenti del potere regio: le strutture castellari, quelle “rocche de intorno” che rappresentano un «grande impedimento». E che è necessario “derrupare”, abbattere definitivamente, se si vuole conquistare e conservare l’autonomia.

Il tempo scandirà nuove egemonie…

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