Sangue su Fiume: il peggior Natale di D’Annunzio

by Fabrizio Simone

L’11 novembre 1920 due delegazioni – quella italiana era capeggiata dal ministro della Guerra Ivanoe Bonomi e dal ministro degli Esteri Sforza, quella jugoslava dal presidente del Consiglio Vesnic e dal ministro degli Esteri Trumbic – si incontrarono a Rapallo per risolvere l’annosa questione fiumana tramite la sottoscrizione di un trattato. In base ad esso, la città di Fiume sarebbe diventata uno Stato indipendente, l’Italia avrebbe avuto un nuovo confine nordorientale comprendente tutta l’Istria e la linea prevista dal Patto di Londra, abbandonando definitivamente le pretese sulla Dalmazia e vedendosi riconosciute soltanto le isole di Cherso e Lussino nel golfo del Carnaro, e le isole dalmate di Pelagosta e Lagosta, oltre che la sovranità su Zara. L’Intera Dalmazia, quindi, spettava definitivamente alla Jugoslavia, incluse le grandi isole di Arbe e Veglia. Ai 15.000 italiani presenti in Dalmazia sarebbe stata anche garantita la possibilità di scegliere tra la cittadinanza italiana o quella jugoslava, conservando lingua e cultura.

D’Annunzio non tollerò di non essere stato invitato al tavolo delle trattative, a Villa Spinola, nel borgo di San Michele di Pagana presso Rapallo, e autorizzò due aerei a partire da Fiume per lanciare su Roma un manifestino dal tono violento rivolto ai rappresentanti italiani, ribattezzati “assassini della Vittoria”. I servizi segreti della Reggenza dannunziana riuscirono ad infiltrarsi a Villa Spinola e piazzarono un microfono nella sala delle riunioni di Trumbic, permettendo così al Comandante di scoprire il reale contenuto del trattato. A D’Annunzio non restò che protestare invano denunciando l’illegalità delle decisioni prese a Rapallo. L’impresa fiumana, iniziata l’11 settembre del ’19 col supporto di duemilacinquecento volontari provenienti da ogni angolo d’Italia (negli ultimi mesi dell’avventura, però, i legionari dannunziani superarono le diecimila unità), s’avviò quindi verso la sua naturale conclusione.

Ma la risposta di D’Annunzio non si fece attendere: il 13 novembre ordinò l’occupazione dell’isola di Arbe (Rab) inviando un MAS con quattro ufficiali e dieci arditi. Da Fiume, due giorni dopo, arrivarono altri 150 arditi per condurre in totale sicurezza l’occupazione. La comunità italiana accolse con gioia i legionari, ma la maggioranza slava guardò con sospetto i nuovi arrivati perciò il Comandante si accattivò le famiglie più bisognose elargendo 10 mila lire, ma sequestrò tutte le armi ed espulse i notabili ostili. I legionari, essendo gli unici a disporre di armi sull’isola, si abbandonarono a furti e sparatorie, anche di notevole gravità. Lo stesso giorno D’Annunzio inviò una legione di 200 arditi sull’isola di Veglia (attuale Krk), armati persino di lanciafiamme per convincere il commissario civile, i bersaglieri e i finanzieri italiani ad appoggiare la Reggenza: questi ultimi preferirono abbandonare l’isola lasciando 20 mila slavi e una minoranza di 1500 italiani nelle mani di D’Annunzio, pur di non tradire il governo italiano.

Il presidente del Consiglio italiano, Giovanni Giolitti, incaricò il generale Caviglia di recarsi da D’Annunzio per notificare ufficialmente la firma del patto e per convincerlo a lasciare Fiume, destinata ad essere amministrata dai suoi cittadini. D’Annunzio si limitò ad accettare la nota con estrema cortesia, per poi ribadire il suo rifiuto al trattato. Il trattato di Rapallo finì per essere accettato da tutti gli uomini a lui vicini e Mussolini, alleato di Giolitti all’insaputa del poeta pescarese, rivelò le sue reali intenzioni pubblicando un articolo sul suo giornale, in cui dichiarò che il trattato di Rapallo costituiva la soluzione migliore per Fiume. D’Annunzio, allora, giocò la sua ultima carta: spedì in missione diplomatica il fidato sindacalista socialista Alceste De Ambris, coautore della Carta del Carnaro (la costituzione dello stato dannunziano) e Capo di Gabinetto nel governo di Fiume, richiedendo il supporto dei fascisti. De Ambris partì per Roma per consegnare a Sforza le condizioni di un accordo e incontrare Mussolini, che interruppe bruscamente il colloquio. Mussolini escluse ogni possibilità di appoggio: i suoi uomini non sarebbero intervenuti nell’ultima battaglia per la libertà di Fiume italiana perché D’Annunzio era condannato a riconoscere il trattato.

Il generale Caviglia, intanto, iniziò a preparare il piano d’assedio e il 30 novembre inviò a D’Annunzio l’ultimatum. Invitò i legionari a consegnarsi ai comandi regolari e chiunque avesse opposto resistenza sarebbe stato trattato come appartenente alle truppe nemiche, rischiando anche la pena di morte. D’Annunzio diede a Caviglia l’epiteto di “carnefice del Carnaro” ed esortò i suoi uomini ad imbracciare le armi: “Siamo circondati dalla sbirraglia del vecchio impazzito. Il combattimento è inevitabile. Con ligure candore il generale Caviglia mi preda di abbandonare le isole e mi minaccia di scacciarmi. Ecco la mia risposta: È necessario insorgere contro questi traditori dementi. I Fasci dovranno fare le barricate se occorre, e assediare il buon generale mai sazio di gloria. Io mi farò ammazzare con tranquillo disprezzo e non invidierò i superstiti”.

I fascisti triestini non giungeranno a dare manforte a D’Annunzio adducendo come motivazione la volontà di evitare lo scontro fratricida contro le truppe del vincitore di Vittorio Veneto. Caviglia replicò all’insolenza di D’Annunzio schierando le forze della Marina (navi da battaglia, unità leggere e rimorchiatori) a poche miglia da Fiume, ma il governo annullò il blocco navale quando l’opinione pubblica si dimostrò contraria alla forza, attuando un semplice servizio di pattugliamento marittimo per ostacolare eventuali colpi di mano e le comunicazioni tra Fiume e la Dalmazia. Il ministro Bonomi si dichiarò disponibile ad un accordo prospettando il riconoscimento italiano della Reggenza dopo lo sgombero delle isole Arbe e Veglia, e il ritiro dei legionari, dopo l’istituzione di un governo fiumano. La proposta non convinse D’Annunzio, interessato a lasciare i legionari nei territori occupati insieme alle truppe regolari fino alla completa risoluzione della crisi.

Quando il Senato approvò il trattato di Rapallo (215 voti favorevoli e 29 contrari) per D’Annunzio restò solo la possibilità della battaglia. Caviglia intimò di sgomberare le truppe da ogni scoglio, isola o località di terraferma entro le 18 del 21 dicembre, ma D’Annunzio rispose proclamando lo stato di guerra in tutto il territorio della Reggenza. Tremila uomini tra alpini e carabinieri, dotati di cannoni, piombarono a Fiume eseguendo le istruzioni del generale Ferrario. D’Annunzio concesse ai suoi uomini di lasciare la città e circa cinquanta legionari approfittarono dell’occasione. Provò ad appellarsi per l’ultima volta a Mussolini, tramite Arturo Marpicati, ma ottenne soltanto l’ennesimo diniego. D’Annunzio sperava che i fascisti potessero assaltare le prefetture e le questure rendendo necessario l’intervento delle truppe regolari in Italia, ma Mussolini non intervenne, lasciando il Comandante al suo destino.

All’alba della vigilia di Natale i quattromilaquattrocento uomini schierati da D’Annunzio attesero le truppe regolari. Il sindaco Gigante si disse pronto a rispolverare l’uniforme ma D’Annunzio si asserragliò nel Palazzo del Governo, protetto da barricate, filo spinato, cavalli di frisia e sentinelle armate (i ragazzi della Disperata e i granatieri della legione di Ronchi). Prima di consumare con i suoi ufficiali un panettone arrivato da Milano, fece distribuire da alcuni aerei un proclama per le truppe regolari: “Ingannati dai vostri Capi che obbediscono al sinistro negatore della guerra e della vittoria, voi volete dare alla storia atroce d’Italia il Natale fiumano, il Natale di sangue, il Natale d’infamia. […] Le vostre madri, coraggiose e generose come tutte le madri italiane, sapranno domani il delitto abominevole cui vi spinge la perfidia dei disertori e dei traditori che osano invocare il nome di Patria dopo aver tutto profanato di questa Patria ancora grondante di sudore e di sangue. E che penseranno di voi? Che diranno di voi? […] Il Dio rinato, il Dio d’amore di giustizia e di libertà e di speranza, il Dio dei nostri presepi infantili e dei nostri affettuosi ricordi vi disugelli le palpebre e vi guidi”.

Alle 18, mentre i cittadini terminavano gli ultimi acquisti natalizi, due boati convinsero i fiumani a nascondersi nelle loro case e nelle cantine, spegnendo le luci e chiudendo le finestre, in attesa dello scontro fuori città. Gli sfollati delle periferie trovarono rifugio nei sotterranei del Palazzo del Governo e dei due teatri di Fiume. D’Annunzio continuò a sperare nella coscienza delle truppe regie, ma diede l’ordine di sparare ai suoi legionari, che aprirono il fuoco per primi contro i fanti dell’esercito italiano, intervenuti nelle prime linee per ammanettare i ribelli. In poche ore ne morirono quattro tra cui l’eroico ventenne Mario Asso, al quale concederà il riposo al Vittoriale. D’Annunzio, pallido, nella sua divisa con le fiamme nere, preparò un messaggio da trasmettere al radiotelegrafo (“L’Italia celebra la notte di Natale facendo strage di soldati italiani in Fiume d’Italia. Gabriele d’Annunzio saluta i suoi carnefici”), cui seguì un messaggio Agli italiani, pubblicato nonostante la sospensione della stampa durante le festività: “Il delitto è consumato. La terra di Fiume è insanguinata di sangue fraterno. Sul far della sera, all’improvviso, le truppe regie in numero soverchiante hanno attaccato i Legionarii di Fiume; i quali per evitare ogni provocazione avevano ristretto la loro linea di difesa e avevano mandato ai fratelli quel saluto cristiano che nella notte di Natale usavano scambiarsi le nostre trincee e le trincee austriache. […] Essi hanno dato a Fiume il Natale funebre. Nessuno passerà, se non sopra i nostri corpi. […] Passiamo la notte santa nell’orrore del fratricidio. Combatteremo tutta la notte. E domani alla prima luce del giorno speriamo di guardare in faccia gli assassini della città martire. Essi avranno tutti la medesima faccia schifosa: quella del vecchio boia labbrone che dal Viminale ordina il macello al suo ligio manigoldo di Trieste”.

Distrutti i sei ponti sull’Eneo per impedire ai regolari di attaccare Fiume da est, provenendo dal sobborgo croato di Sussak, i fiumani trascorsero una notte tranquilla. Solo qualche cannone in lontananza costringeva ad immaginare quali sarebbero state le conseguenze per D’Annunzio e la città. La tregua natalizia finì all’alba di Santo Stefano, quando una granata colpì la polveriera legionaria di Val Scurigne. Quando i regolari iniziarono ad attaccare i sobborghi, le donne di Fiume decisero da che parte stare: molte si improvviseranno infermiere, altre imbracceranno i fucili mettendo la giubba da ardito. Nel pomeriggio l’azione si spostò al porto di Fiume. L’equipaggio dell’Andrea Doria obbedì all’ammiraglio Simonetti ed attaccò il cacciatorpediniere Espero, risoluto al lancio di un siluro. Dall’Espero in fiamme fuggirono i ragazzi della Disperata. Distrutto il cacciatorpediniere Espero, l’Andrea Doria puntò i cannoni sulla facciata del Palazzo della Reggenza colpendo il secondo piano dell’edificio. D’Annunzio stava studiando la battaglia insieme ai suoi collaboratori. Travolto dai calcinacci, il Comandante rimase lievemente ferito. L’esplosione provocò un solo morto, il granatiere Antonio Gottardo, cui D’Annunzio riservò un posto tra i prescelti del Vittoriale.

Nel caos il barone Guido Keller, aviatore della squadriglia di Francesco Baracca nella Prima Guerra Mondiale, guidò all’assalto i ragazzi della Disperata montando romanticamente sul suo cavallo bianco in direzione delle colline. D’Annunzio, scortato da soldati e ufficiali, si rifugiò con la pianista Luisa Baccara in un appartamento non lontano dal Palazzo, per poi trovare ospitalità presso il sindaco Gigante. Gli fu impedito di correre alla battaglia, ma Ernesto Cabruna gli rimproverò di non essere morto per la causa, come tante volte aveva giurato. Fallito l’assassinio del Comandante, gli ultimi colpi dell’Andrea Doria centrarono un’ala della caserma della Disperata, inducendo i legionari a cannoneggiare la corazzata. Gli ufficiali pensarono anche di far scappare D’Annunzio travestendolo da boscaiolo croato o a bordo di un aeroplano o di un MAS, ma il Comandante si rifiutò di lasciare Fiume. In Italia deboli reazioni di protesta per l’uso della forza contro i legionari si ebbero solo a Venezia e a Trieste, subito represse da guardie a cavallo e da autoblindo. La popolazione approvò il trattato di Rapallo e il consenso dannunziano calò drasticamente. In difesa di D’Annunzio si schierò solo il giovane Gramsci.

Il 27 dicembre Caviglia annunciò che Fiume sarebbe stata bombardata. Il primo giorno gli obiettivi furono di tipo militare ma non mancarono morti e mutilati, soprattutto donne. Gigante propose una tregua per raggiungere un accordo ma Caviglia fu implacabile: solo con il riconoscimento del trattato di Rapallo sarebbe potuto cessare il bombardamento su tutta la città. Inoltre il generale non consentì neppure una tregua per sgomberare vecchi, donne e bambini, costringendo Gigante e Host-Venturi a mediare con D’Annunzio per giungere alla fatidica resa il 28 dicembre. D’Annunzio si fece da parte: lasciò al Consiglio della Reggenza la decisione definitiva sullo scontro fratricida.

 A casa del presidente del Consiglio nazionale italiano di Fiume, il medico irredentista Antonio Grossich (famoso anche per aver inventato la tintura di iodio), i 13 Rettori, i consiglieri municipali, i cittadini più illustri e i principali membri del Comando votarono per il riconoscimento del trattato e D’Annunzio rimise i poteri civili e militari ricevuti il 20 settembre 1919. Il 31 dicembre si arrese definitivamente all’applicazione del trattato, sgomberando le isole di Veglia, Arbe e lo scoglio di San Marco. Il testo definitivo obbligò i legionari a lasciare la città disarmati e i soldati regolari ad arretrare gradualmente fino ai confini italiani. I fiumani trascorsero un Capodanno senza timori e il 2 gennaio si ritrovarono insieme a D’Annunzio e i legionari nel cimitero di Fiume per commemorare le vittime del “Natale di Sangue”: 22 caduti regolari, 22 legionari e 6 civili.

I legionari partirono tra il 4 e il 13 gennaio 1921, reintegrati nelle rispettive caserme o condotti fino ai comuni di residenza. D’Annunzio, improvvisatosi “Duce” di un’impresa destinata a suscitare profonde ripercussioni sulla storia d’Italia, lasciò Fiume il 18 gennaio, dopo aver occupato la città per sedici mesi. Raggiunse Venezia per soli dieci giorni, alloggiando a Palazzo Barberigo, e chiese ai suoi collaboratori di trovargli una dimora adatta a lui, ma prossima ai laghi di Garda, Como o Maggiore. L’Antongini trovò una gigantesca villa a Cargnacco, presso Gardone Riviera, requisita dallo Stato allo storico dell’arte Henry Thode, che sposò una figliastra di Wagner. Qui trascorse i suoi ultimi diciassette anni di vita, uscendo definitivamente dalla scena politica nonostante la golosa offerta di Italo Balbo e Dino Grandi, giunti al Vittoriale nel luglio del’21 per offrirgli la guida del movimento fascista, preferendolo a Mussolini, sul quale ripiegarono, come rivelò Indro Montanelli il 15 ottobre 1972 sul «Corriere della Sera».  

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