Vini venerandi, provoloni di Gravina e melanzane: il pranzo tipico pugliese degli Anni Trenta

by redazione

Ho bevuto finalmente del trani come trani. Finora lo avevo bevuto come barbera, come grignolino, come chianti, come bordeaux, come vermut, come vino del Reno, come vinsanto; il nome mi sonava ominoso e pauroso, simbolo di manipolazioni, di alchimie, d’intrugli alambiccati.

Ecco oggi in casa dell’amico ospitale una bottiglia che questo nome inalbera orgogliosamente sopra l’etichetta; e se ne versa un vino rosso, vigoroso, che somiglia un po’ al montepulciano e un po’ a non so che cosa, focoso, solenne, vino da cementare amicizie e aprir le vele per l’oltremare. Bevo di questo vino e capisco lo spirito avventuroso della gente pugliese che ama il lavoro come un rischio; agricoltori che non subiscono rassegnati i capricci dei mercati, ma se mutano le domande mutano le culture, ora tutte ad ulivi e mandorli, ora tutte a grano, ora tutte a vigna: marinai come quel padrone che trovai all’isola di Simi nel Dodecaneso con una barchetta lunga così, ed era venuto da Molfetta traverso tutto il Mediterraneo, senza bussola, senza carte, a quest’isola che chiamava isola delle scimmie: «E come ci siete arrivato?» «Eh, domandando…».

Bevo di questo vino e veggo ardere la terra dai monti al mare, gialla di stoppie, bruna di aratura, ombrosa di ulivi, impellicciata di vigne ad Alberello, festonata di fichidindia e di palme, con i suoi borghi a terrazze candide speculanti il mare, con le chiese del Mille e i castelli di pietra arrugginita. Finora, lo confesso, di lontano la vedevo solo come un’enorme cantina da taglio e da travaso; ed i suoi vini li immaginavo come un inchiostro, da spaccar bicchieri, da macchiare le tovaglie di rosso indelebile. Con che grata maraviglia a Taranto vidi portare in tavola per accompagnare le ostriche un bianco di Locorotondo, esilissimo, lucido, biondo albino come queste fanciulle pugliesi di sangue normanno! Pareva un vino da nulla, come suo solo pregio fosse l’ineffabile limpidezza., incorruttibile nella gran luce («Tutto sta come è fatto,» mi spiegò poi il cantiniere a Locorotondo, quando andai a far visita di dovere a quelle grandissime cantine; e mi curvai sull’afrore delle cupe cisterne ove bollivano i mesti e ammirai modernissimi filtri d’amianto per tergere il vino. «Chi non lo sa fare, gli viene trasparente in cantina, ma appena lo porta su all’aria gli s’intorbida»). Invece dopo aver vuotato il bicchiere, — non è vino da prendere a centellini, questo — un gusto postumo illuminava la bocca, fresco, aromatico, ardito. E intanto l’ostricaro apriva i gusci; e il tramontante sole, rosso sull’alta ripa di contro, giocava nella madreperla, e rabbrividiva il mollusco nel suo succo marino, in trepida offerta alla nostra ingordigia.

Il poeta barese Michele Bellomo ha condensato in un sonetto a gambe corte il pranzo tipico della sua terra. Il sonetto è in vernacolo; ma errerebbe chi lo credesse scritto in dialetto. Il pugliese non è un dialetto: è un modo di raddolcire e masticare le sillabe, per cui da tegame si fa tiane e “Lontananze” diventa «Lendananze» (è il titolo delle poesie di Michele Bellomo). Trovata la formula, si capisce tutto; ma che festino fanno sti pugliesi delle parole italiane, come le schiacciano contro il palato, come le spremono sulla lingua, come ne servono il succo fra le labbra con pigrizia, e dolcezza!

Dice dunque il poeta Bellomo che «arrevate tanne, tanne/ nu frastjere da lendane/ le mignuicchie de batane / a u trattore nge chemanne»; cioè arrivato fresco fresco un forestiero di lontano le mignuicchie di patate al trattore gli comanda. Sono gnocchi di patate dolci, orgoglio di questi orti; conditi con sugo di carne e pomodoro sono degni di essere ribaditi con «mjere vécchie de désce anne, con vino vecchio di dieci anni». Poi il nostro poeta consiglia. «de brasciole nu tiane / paperusse e melengiane, di polpette un tegame, peperoni e melanzane; prevolone de Gravine, / po’ fenucchie e manderine, provolone di Gravina, poi finocchi e mandarini. Venda mé fatte a capanne, ventre mio fatti capanna» esclama il poeta a questo punto; ed ha ragione; tanto più che se beve vino di dieci anni subito dopo i gnocchi, ormai con le seconde mense sarà arrivato a quel fasano di quarant’anni che io ho bevuto ad Alberobello, in vista al malinconico e barbaro scenario dei trulli.

Il trullo, sapete bene, è una casetta cubica brillante di calce, ricoperta da un cono di pietre nere ammucchiate (qui queste lastre di roccia del luogo le chiamano chiàncole, perché sono chiane, piane), terminato a sua volta da un mezzo rocchetto pittato in bianco; e se la casa ha più stanze, ognuna di esse è un trullo, e le piramidi nere sorgono congiunte insieme alla base come tante capanne africane. Bevevo di quel vino venerando, e contemplavo la città dei trulli distesa sul fianco di una collina opima di fichi e di vigne, la selva dei coni neri in cima ai dadi bianchi, strana e cabalistica per quelle cifre, sigle, segni dello zodiaco, croci, ostie dipinte in bianco sui coni; e cercavo paragoni, accampamento barbarico, necropoli (mi avevano narrato d’una suora del settentrione portata in mezzo ai trulli il pomeriggio quando tutti dormono nelle case e le vie sono vuote e silenziose; ed essa si segnava passando davanti a ogni trullo e mormorava un requiem). Finché il paragone giusto m’illuminò: damigiane parevano, un enorme deposito di damigiane di questo vino di Puglia così vampante e generoso che dà vita e colore e onore ai cento vini anemici di Francia e di Germania, disinteressato e munifico, e per sé è pago se qualche botte è sottratta ai barbari connubi, se qualche bottiglia è fatta invecchiare sul patrio suolo; come questo fasano che ha perduto con gli anni il color nero e il rosso, ora è colar di foglia autunnale, ed ha un gusto incatramato di madera che culla dolcemente la siesta pomeridiana.

Tale dunque, secondo il poeta Bellomo, è il pranzo tipico pugliese; magari sostituendo ai mandarini, se è la stagione, una fetta di cocomero di Lecce, o uva di Bisceglie, bionda, tonda, grossa, con macchie di ruggine, o quella bluastra ricoperta da una abbondante pruina; o i fichidindia colti dalle siepi polverose intorno ai dadi candidi delle case. (continua…)

BARI, settembre 1935

Paolo Monelli

Scrittore e giornalista italiano (Fiorano Modenese 1891 – Roma 1984). Inviato speciale di vari giornali, fra cui, per molti anni, La Stampa, fu in seguito collaboratore del Corriere della sera.

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