“Vogliamo solo una bottiglia di spumante, poi andiamo via”. Ma fu strage al Bacardi. Parte seconda

by Gabriele Rana

Tutto ebbe inizio, secondo la maggior parte delle fonti, da una festa in discoteca. Ma le vicende hanno radici ben più profonde. Comunque la maggior parte dei coinvolti, tra vittime e mandanti, quella sera in cui aprile e maggio si davano il cambio sul calendario si trovava al Metropoli.

E come dimenticarsi del Metropoli? Una delle due discoteche più grandi dell’epoca, insieme al Domus Aurea. Si trovava a Villaggio Artigiani in una traversa di quello stradone che collega il cavalcavia a Via Arpi e, dunque, alla zona in cui si trovava il Bacardi.

Per molti, i motivi vanno rintracciati lì: tra dance anni ‘80, droga da discoteca e una lite tra i vari protagonisti di questa storia. Lite che venne sempre smentita da tutti gli interrogati ma, che ci sia stata o no, non poteva essere il motivo di quanto accadde quella sera nel piano bar: tutto quel sangue non poteva essere la conclusione di una lite finita male.

Possiamo immaginare che in un orario antecedente alle tre Manco e la sua amante, Antonietta Cassanelli, salirono sulla Mercedes dell’uomo, entrambi storditi ed eccitati dalla serata in discoteca. Si può amare l’amante più della propria moglie, indubbiamente, ma non possiamo immaginare che i sentimenti di Manco fossero proprio d’amore o di altra libidica natura. Fatto sta che per il netturbino di San Ferdinando di Puglia, quella donna era così bella da meritare di essere portata in giro come un trofeo: gli occhi grandi, dal taglio particolare, incorniciati da quel trucco esagerato tipico di quegli anni, le labbra a cuoricino leggermente carnose, il naso che si allargava sulla punta, il profumo acre e dolce al contempo che riempiva le narici, le calze a rete. Chissà che cosa hanno fatto negli ultimi istanti della vita della donna, che cosa si sono detti prima di entrare nel circolo della morte.

Antonietta Cassanelli

Sicuramente si sono seduti a quel tavolo con gli altri quattro tutti già noti alle forze dell’ordine che, come loro, erano reduci dalla stessa serata in discoteca: i fratelli Piserchia, l’abile spacciatore Giovanni Rollo e Pompeo Rosario Corvino. Tolta la Cassanelli, dei sei presenti al tavolo Corvino era quello che “valeva di meno”.

Era, infatti, un pregiudicato da poco uscito dal carcere per aver rubato una cassaforte a Palazzo Dogana: cassaforte che però gli cadde sul piede, bloccandolo nel bel mezzo dell’azione. Il suo arresto è l’unico aspetto comico della vicenda. All’epoca del suo omicidio era però indagato per aver ammazzato, in un agguato, Gaetano Moffa, nel febbraio del 1986. Moffa faceva parte del clan di Rizzi.

La sua morte avvenne a Piazza Sant’Eligio, dove ai tempi si trovava il carcere, e si pensa che fu una rivalsa del clan Laviano dopo il tentato omicidio del boss, uno dei tanti, avvenuto un mese prima. Questo omicidio fa parte del clima di tensione che già si respirava tra i due clan. Il clan Agnelli-Rizzi ricalcava lo stile e le modalità tipiche della camorra, lo stesso Rizzi ne era affiliato. I metodi di affiliazione, poi divenuti tipici di tutta la Società, avvenivano in carcere durante l’ora d’aria in quello che viene definito “battesimo”: l’affiliato e chi lo affilia si fanno un taglio sul braccio sinistro e sull’incavo tra pollice e indice e, in base alle occasioni, l’uno succhia il sangue dell’altro, dopodiché si effettua uno scambio simbolico sigarette.

Goisuè Rizzi detto Il Papa

Giosuè Rizzi era al vertice del suo clan, e anche lui, come Giuseppe Laviano, non difettava in quanto a carisma: sempre elegante, già vedendolo in fotografia non sembra strano che intrattenesse relazioni con un buon numero di donne come lui stesso ha affermato nel corso di un interrogatorio. Alla sua porta, qualche tempo prima della strage, bussò Manco. Quello che sulla carta era un semplice netturbino era in verità il boss dello spaccio di eroina a San Ferdinando di Puglia: non c’era grammo di polvere bianca che non passasse tra le sue mani. Bussò alla porta del “Papa”, come veniva chiamato ed è tuttora ricordato Rizzi, per entrare in affari con lui e piazzare la propria roba. Ma ricevette un rifiuto e, per questo motivo, come un questuante del diciassettesimo secolo passò a un’altra porta: quella di Laviano.

Giuseppe Laviano

L’alleanza tra i due però non era tollerabile, si sarebbero creati troppi squilibri sulle piazze di spaccio e la questione andava risolta il prima possibile, e nel sangue. Si decise quindi di chiarire tutto al Bacardi: ma non vi furono parole, solo proiettili e sangue.

«Penso che la nostra rovina fu il Metropoli– racconta Aldo Ciavarella, musicista e fondatore del circolo – Il Bacardi si stava trasformando in un dopo locale, che accoglieva tutti i reduci esaltati dalle serate in discoteca. Io incitavo gli altri soci a chiudere prima per evitare questa situazione. Quella sera l’altra socia che lavorava con me tornò a casa prima, aveva avuto una discussione, mentre a compensare l’assenza dell’altro socio venne il fratello che si mise al bar. Fu una serata molto piatta. Tolta una coppia di ragazzi, non era venuto nessuno: erano tutti in discoteca. Io volevo chiudere, ma un mio amico mi convinse a tenere aperto ancora un po’. Passata un’ora, ho preso il bastone per abbassare la serranda, mentre gli altri spegnevano le luci. Aprii la porta e mi sono trovato davanti un gruppo di sei persone, tra questi una ragazza: volevano entrare. Dissi loro che non era rimasto nulla da mangiare e che stavamo per chiudere, ma loro: “Vogliamo solo una bottiglia di spumante, poi andiamo via”. Ho accettato e li ho fatti accomodare a un tavolo sulla sinistra, pensando che sarebbero andati via subito.»

Se solo non avesse ceduto a quelle insistenze. Ma chi poteva immaginare cosa sarebbe accaduto in seguito? Il racconto di quella notte continua la prossima settimana.

Aldo Ciavarella pianista al Bacardi

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