Appare in un doppio ruolo in Fahrenheit 451 (1966) di François Truffaut che dice di lei: “Julie è un cocktail di appariscenti contraddizioni: un viso con un che di animalesco, da lupa, su un corpo da ragazzino. Il suo profilo è bellissimo. La bocca immensa, larga, vampiresca”.
Orio Caldiron
Orio Caldiron
Saggista e critico, è uno dei maggiori studiosi italiani di cinema, autore di centinaia di scritti in cui la straordinaria competenza si salda alla passione cinefila in un linguaggio immediato e colloquiale. Ha dedicato mostre e programmi televisivi a personalità e momenti del cinema italiano. Docente universitario di lungo corso, direttore di prestigiose collane editoriali, è stato Presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
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Patricia Neal scompare l’8 agosto 2010 nella sua casa di Edgartown nel Massachusetts, lasciando agli spettatori il ricordo di un’attrice di talento che non ha mai voluto essere diva. Ma anche l’intelligenza e la vivacità di uno sguardo che non si lascia sopraffare dalle difficoltà.
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La vibrante fragilità di Ilse, incerta tra due uomini nel dramma della guerra – «E’ il mio cuore che batte o sono i colpi di cannone?» – segna come nessun altro personaggio il percorso divistico dell’attrice che con Casablanca (1942) di Michael Curtiz entra subito nel mito, ammirata da generazioni di cinefili che sanno a memoria le battute del film.
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La sua bellezza adolescenziale tra ambiguità e innocenza si era imposta già nei primi film dell’inizio quaranta, da La via del tabacco di John Ford a L’inferno del deserto di Henry Hathaway, da I misteri di Shanghai di Josef von Sternberg a Il figlio della furia di John Cromwell.
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Il fenomeno Bardot esplode con Et Dieu créa la femme (1956) di Roger Vadim che arriva in Italia sforbiciato dalla censura soltanto due anni dopo con il titolo Piace a troppi.
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Solo con Gioventù bruciata (1955) di Nicholas Ray si afferma accanto a James Dean come una delle attrici più dotate della nuova generazione, l’immagine aggressiva dell’inquietudine giovanile.
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Il suo film più celebre è La scala a chiocciola (1946) di Robert Siodmak, destinato a diventare un classico del cinema della paura.
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L’esperienza più traumatica è la lunga prigionia nel campo di concentramento tedesco di Bergen-Belsen. Nel dopoguerra ritorna con successo al palcoscenico, ma arriva presto al cinema.
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Il capolavoro è Scaramouche (1952) di George Sidney dove il generoso avventuriero, per vendicarsi del cinico marchese che gli ha ucciso l’amico, non esita a indossare volta a volta le maschere del rivoluzionario, del girovago, dello spadaccino.
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L’occasione più memorabile della sua carriera gliela offre Alfred Hitchcock con L’uomo che sapeva troppo (1956).